Platone aveva ragione: bisogna cacciare i poeti dalla città. Ve l'immaginate, il regno di un poeta? Dominato dal capriccio, da una disciplina impossibile, dal genio del gusto. I poeti, si sa, auscultano il caos, sono servi del sangue più che della legge, hanno la spietatezza dei giusti, la ferocia degli ingenui. In effetti, «Tamàs Làszlo Sàndor alias Tomaso K», nato a Budapest «alle ore 17 del 17 settembre» di un onirico 1938, l'ultimo poeta eroico in questa landa di pavidi, sarebbe pronto, lì per lì, ad assediare una metropoli, urlando «La poesia non è figlia illegittima del tempo, ma Big Bang».
Poeta dissennato, disordinato, Don Chisciotte di eccessi la sua opera, sparpagliata in diverse placche, si raccoglie, tra l'altro, in Il libro dell'angelo, Guanda, 1991 e Melody, Marcos y Marcos, 1998 , Tomaso Kemeny si fa fotografare spesso in divisa: pare un ussaro, uno uscito da un libro di Joseph Conrad, che ha affari al Cabaret Voltaire, in compagnia di Tristan Tzara e Hugo Ball. È fuori luogo e fuori tempo, obliquo e ubiquo, anziano, antico, perfettamente giovane, Tomaso K, supereroe della lirica: il viso sfugge a ogni ragionamento, ha la nostalgia ferrea di un crollo, la voluttà dell'Impero austro-ungarico.
Nel romanzo autobiografico Per il Lobo d'Oro (Effigie, 2020), forse il libro più bello per ardore e stile, Tomaso K racconta che a La Salle Street, «nel downtown della favolosa Chicago», si allenava con Sugar Ray Robinson, uno dei più grandi pugili di tutti i tempi. È uno sketch che contempla una poetica. «Sugar mostra simpatia per Thomas che gli chiede di potere fare jogging con lui, il campionissimo. A partire da La Salle Street, alle quattro di notte suole correre e questa volta si fa accompagnare da Thomas». Che c'entra la boxe con la poesia? Ovvio: il verso è l'evoluzione verbosa del pugno; la poesia è agilità, fermezza, scatto. Atletismo supremo. Lotta. «La boxe è la sublimazione estetica della lotta per la sopravvivenza. Lo scontro, la lotta nella vita è inevitabile con i servi dell'Impero del Brutto», mi dice il poeta, qualche rigagnolo di gloria fa.
Lunare, ipnotico, Kemeny deifica la poesia, a cui ha sacrificato se stesso, e ne onora gli arconti: William Blake, Shelley, Dylan Thomas, Byron; conosce André Breton «accadde nel 1962... era ormai anziano ed asmatico, mi aiutò a fare crollare le mura che separano la vita dal sogno e dalla scrittura poetica» , di cui caglia il carisma. La poesia ha senso, crede, se sovverte la Storia. Fu il Lancillotto del Mitomodernismo, che nacque nel 1988, a Riccione, con l'idea di imbracciare «la Bellezza come guida alla ribellione ai poteri illegittimi e offensivi della dignità umana». Capitanò una serie di iniziative un po' clownesche, vaghe, militaresche e felliniane, che fecero clamore nella palude delle lagne italiche: la presa della collina dell'Infinito a Recanati, dieci anni fa; la lettura di poesie, nel 2016, davanti alla Borsa di Milano, simbolo della bestia finanziaria che divora la libera immaginazione. «Si vuole tracciare i confini di un cosmo sorto dall'indecenza contemporanea, contrapponendo, appunto, l'energia poetica intesa come dono alla Tirannia del Dio Denaro», dice lui, gentile come Lawrence Ferlinghetti, dall'indole magiara, cruda, propria all'impossibile, che fu di Ferenc Puskás e di Sándor Petfi.
Il padre di Kemeny muore il 2 aprile del 1942 sul fronte russo «Pensavo fosse immortale. La sua scomparsa mi ha fatto amare follemente la bellezza fuggitiva della vita» , l'Ungheria passa sotto il regime sovietico, il poeta reagisce, dacché il dio della poesia è la rabbia, «si mette a correre a cento chilometri al secondo per sputare in faccia alla cricca stalinista che stupra la terra magiara (oh, avere un mitra per fare giustizia!). Con gli occhi infiammati dal furore, chiede elemosina agli angeli della rivolta permanente...». Tomaso Kemeny è l'analogo di Eduard Limonov, senza parti né partiti, teatrale, dunque più pericoloso: incita rivolte trasversali, interiori, integraliste, totali. Celebra Filippo Tommaso Marinetti, è seguace di Ezra Pound, «poeta che ha coraggio di essere se stesso nel bene e nel male, conferendo il primato alla poesia su tutto il resto dell'esistente», ama Torquato Tasso e Gabriele d'Annunzio, «per il suo inimitabile stile esistenziale». Che proprio a Tomaso Kemeny, autore di una vita poetica, di una poetica dell'esistere, vada il Premio Lerici Pea «alla Carriera» sabato 21 agosto assegnato dalla giuria per la Sezione alla Carriera di cui è presidente il poeta Giuseppe Conte, autore anche delle motivazioni in cui si legge: «Kemeny è grande anche quando sceglie la forma lunga del poema, dove si cimenta in straordinari affondi epici e onirici, o in un gioioso, bacchico, rossiniano esercizio metrico e satirico». Lo hanno vinto, tra gli altri, Yves Bonnefoy, Seamus Heaney, Adonis e Mario Luzi.
«La poesia per me significa assecondare gli eccessi atti a travalicare le frontiere della Realtà. La poesia per me è inoltrarsi giorno dopo giorno nei labirinti del sublime. La vita è assecondare le spinte eroiche, erotiche, eretiche; tenersi a distanza di sicurezza dagli stagni della disperazione», mi ha detto Tomaso K, qualche tempo fa.
Credo che sulla sua scrivania veda Waterloo e Missolungi, Tomaso K, che sia consapevole che la posa è tutto, che il bel gesto primeggia sulle buone intenzioni. Credo sappia camminare sui tetti, e deragliare il volo delle aquile. Di certo, si diverte.
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