Il più popolare settimanale italiano dell'epoca, La Domenica del Corriere, nel numero del 5 agosto 1900, pubblicava, nella prima e nell'ultima pagina, due belle tavole a colori di Achille Beltrame. La prima, divenuta celeberrima, riguardava l'assassinio del Re Umberto I a Monza nella sera del 29 luglio. La seconda ritraeva, insieme alla moglie e al figlioletto, il nostro ambasciatore a Pechino, Giuseppe Salvago Raggi, nel cortile della legazione italiana: una lunga didascalia fatto inconsueto per il settimanale precisava che da due mesi il nostro diplomatico non dava più «sue nuove né al governo di Roma né ai congiunti propri né a quelli della moglie, viventi tutti in orgasmo». Erano circolate voci di fonte cinese che tutti i diplomatici stranieri in servizio al momento della rivolta xenofoba dei Boxer erano in salvo. In effetti sulla base di questa informazione, poi rivelatasi esatta, il settimanale aveva pubblicato la tavola senza la fascia nera che, in segno di lutto, si era pensato di mettere. La tavola di Beltrame ci mostra il giovane diplomatico italiano aveva allora trentaquattro anni alto e magro, in tenuta coloniale, rilassato, certo, ma con una postura che ne rivela il carattere riservato e distaccato, da antico patrizio genovese. Tutto il contrario rispetto a come è presentato in un film americano del 1963 di Nicholas Ray sulla rivolta dei Boxer dal titolo 55 giorni a Pechino, un kolossal storico con un cast stellare tra cui spiccavano Charlton Heston, David Niven, Ava Gardner: in quella pellicola Salvago Raggi era rappresentato come un uomo basso e scuro di carnagione e, soprattutto, insignificante, quasi una comparsa.
In realtà Giuseppe Salvago Raggi, uno dei nomi mitici della storia della diplomazia italiana, era d'aspetto imponente e suggeriva soggezione. La nipote Camilla Salvago Raggi, custode affettuosa della sua memoria, in un bel libro dal titolo Un tempo lontano. Vita di Giuseppe Salvago Raggi (Lindau, pp. 120, euro 16) ne parla come di un uomo «ruvido, burbero, di poche parole», «tipica figura» di un genovese» di antico lignaggio appartenente a una famiglia che aveva dato alla storia personalità importanti in tutti i campi. Naturalmente il libro di «Selvaggina» così l'austero nonno chiamava l'effervescente nipote non è una biografia nel senso proprio del termine: del resto chi volesse conoscere in dettaglio la vita di Salvago Raggi potrebbe affidarsi alla lettura della suggestiva autobiografia dal titolo Ambasciatore del Re. Memorie di un diplomatico dell'Italia liberale (Le Lettere, pagg. 388, euro 32) che copre l'intero arco temporale dell'Italia liberale, dall'unificazione del Paese all'avvento del fascismo.
Quello di Camilla Salvago Raggi è piuttosto un viaggio, quasi proustiano, nella memoria, un lungo itinerario alla ricerca del tempo perduto dove impressioni, flash, ricordi si alternano e combinano in un caleidoscopio che contribuisce a rendere intellegibile, più di quanto non facciano i libri di storia, la personalità di uno dei notabili dell'Italia liberale, un diplomatico che svolse la sua attività al servizio del paese in scacchieri e situazioni particolarmente delicati.
Inviato, giovanissimo, in Cina, Salvago che aveva già fatto i primi passi di diplomatico in sedi come Madrid e Pietroburgo, Berlino e Costantinopoli seppe gestire la crisi della rivolta xenofoba dei Boxer culminata nell'assedio alle legazioni europee di Pechino con una eccezionale abilità negoziatrice e con una sensibilità politica frutto della conoscenza della storia e della cultura del paese nel quale si trovava. Del resto le memorie di Salvago Raggi e i suoi rapporti inviati al Ministero degli Esteri dimostrano la sia tempra di analista politico e di abile negoziatore.
La nipote Camilla sottolinea come la passione del nonno per la storia e la cultura dei popoli con i quali veniva a contatto era non soltanto autentica ma si traduceva in un profondo rispetto per gli usi e le tradizioni locali. Così, per esempio, in quell'epoca di colonialismo, quando, dopo il «mal d'Oriente», assunto l'incarico di governatore civile della colonia Eritrea, fu colpito dal «mal d'Africa», Salvago Raggi, aristocratico e conservatore, fu benvoluto dalle popolazioni indigene il cui benessere e la cui elevazione culturale gli stavano a cuore.
Nelle pagine di Camilla Salvago Raggi si ritrova il ritratto di un uomo rigoroso, autenticamente liberale, espressione della migliore cultura post-risorgimentale: un uomo che non volle mai scendere a compromessi. Quando il fascismo giunse al potere, egli, delegato del governo nella Commissione delle Riparazioni, incontrò Mussolini per avere istruzioni non cedette alle offerte di colui che gli apparve subito come un «apprendista stregone». E non volle mai, anche in seguito, nominato senatore del Regno, iscriversi al partito fascista.
Monarchico e liberale per ragioni familiari e per intima convinzione preferì uscire di scena e ritirarsi nella sua bella villa di Campale (Ovada) dove redasse le sue memorie all'ombra di un antico tasso: quello stesso tasso sotto le cui fronde, a distanza di tanti decenni, anche la nipote Camilla ha scritto i suoi ricordi del nonno partendo dalla giusta convinzione che «c'è sempre qualcosa da scoprire nelle persone che hai conosciuto o con le quali hai vissuto».
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