Sandy Skoglund, la fotografa che dipinge le sue "Visioni ibride" più vere del vero

Per l'opera «Winter» ha rielaborato un complesso programma informatico

Sandy Skoglund, la fotografa che dipinge le sue "Visioni ibride" più vere del vero

da Torino

Siamo a Camera - Centro Italiano per la Fotografia, a Torino. In un complesso a pochi passi dalla Mole Antonelliana dove fu aperta la prima scuola pubblica del Regno d'Italia, da tre anni è attivo un centro espositivo e di ricerca sulla fotografia nazionale e internazionale. Fino al 24 marzo ospita le «Visioni ibride» dell'americana Sandy Skoglund: quattro sale teatralmente costruire con una selezione dei suoi più importanti scatti, dagli anni Ottanta ad oggi, presentanti in grandi stampe a colori, accompagnate da sculture-installazioni. Nel corridoio, i pezzi di grafica. Alla fine del percorso espositivo: Winter, un'opera che ha richiesto all'artista dieci anni di lavoro, per la prima volta esposta al pubblico.

Mentre la fotografia di oggi si declina via Instagram e dura il tempo di un cuoricino, Sandy Skoglund ha investito un decennio della sua esistenza per realizzare una singola immagine: «Winter - commenta lei - è un ibrido di tecniche e idee cristallizzate dalla mia macchina fotografica il 22 dicembre del 2018. È uno studio sulla perseveranza e sulla persistenza, un paesaggio artificiale che celebra la bellezza e lo smarrimento tipici dell'inverno». Minuta, con lo sguardo limpido e i tratti tipici del Nord Europa (ha sangue scandinavo nelle vene), spiega che la sua fotografia «si muove alla velocità di un ghiacciaio». Possiamo capirne i motivi: per realizzare Winter ha rielaborato da sola un complesso programma informatico per stampare in 3D i gufi, la donna di ghiaccio e i fiocchi di neve che compaiono in primo piano. Questi ultimi hanno rappresentato la sfida più ardua: dopo averne studiato la struttura scientifica, li ha riprodotti nella loro naturale varietà, stampandoli su inchiostro ultravioletto. Poi ha elaborato un tessuto speciale per il set dove tre persone (un uomo e due donne, i cui sguardi non s'incrociano) sono posti sul fondo di una stanza. Solo alla fine, ha immortalato l'insieme. I nostri occhi, viziati da filtri e photoshop, reagiscono increduli: possibile che ciò che vediamo sia davvero «reale»? Possibile che abbia fatto tutto da sola, quando di solito gli artistar affidano le loro idee a un nutrito staff che le realizzi? Skoglund, classe '46, è fotografa-maker e fiera artigiana: non fotoritocca nulla. Ha mosso i primi passi sulla scena newyorchese degli anni Settanta lasciandosi ispirare da Man Ray, ha poi scelto la performance fotografica, un misto di scultura e installazione, per realizzare reportage surreali, eppure veritieri.

Curata da Germano Celant, autore anche del catalogo in uscita per Silvana editoriale, la mostra nasce dalla collaborazione con la Galleria Paci Contemporary di Brescia che cura i diritti della fotografa (e lo fa bene: i suoi lavori piacciono al mercato, il celebre The revenge of the goldfish con i pesci rossi è la cover di Venuto al mondo di Margareth Mazzantini, ad esempio). Sono un centinaio le opere esposte a Torino: dai verdi «gatti radioattivi» degli anni Ottanta - primo esperimento fotografico in cui Skoglund usò sul set dei modellini in argilla per gli animali che popolano tante delle sue scene - a Fox Games, le volpi rosse degli anni Novanta, fino a Fresh Hybrid, ultima foto prima di Winter, amara riflessione sui legami tra uomo e natura. Ciascuna di queste surreali visioni ha richiesto un anno di lavoro per essere fotografata: «L'artista deve mettersi nella condizione di essere libero: servono tempo e denaro», dice.

Per questo Sandy Skoglund si tiene lontana dai social («divorano energia: invadono la mente con le loro immagini tutte uguali»), non pianifica («non sapevo quando avrei finito Winter, non so che cosa farò dopo») e resta da sempre fedele al suo obiettivo: «Immortalare l'assurdità nella normalità». I suoi scatti - cortocircuito contemporaneo - piacciono parecchio agli instagrammers.

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