«Aveva orrore della folla, da cui troppo temeva d'esser stretto: orrore al vuoto, perché temeva di cadere: soffriva di vertigo e d'insonnia». Così Carlo Emilio Gadda dedescrive l'agorafobia e nevrosi di cui soffriva Alessandro Manzoni. In una sua lettera, il canonico Dunoyer riporta il ricordo del cardinal Billet: «Manzoni aveva l'impressione di essere al bordo di un abisso e, per calmare la paura che provava di precipitarvi, aveva cura, essendo a tavola, di mettere vicino a sé una sedia su cui appoggiare la mano».
Sulle patologie che afflissero la mente dello scrittore uscì, anni fa, un illuminante libro di Paolo D'Angelo, Le nevrosi di Manzoni (Il Mulino, 2013). Ma quelli mentali non furono i soli disturbi che tormentarono lo scrittore dei Promessi sposi e la sua famiglia: la moglie, Blondel, morì a 42 anni, ben sei delle sette figlie non arrivarono ai 30 anni, a 42 anni morì il figlio Filippo... Cosa li colpì? La risposta è una conferenza organizzata dalla Scuola della Cattedrale di Milano nel 2020, i cui interventi sono confluiti nel libro Le malattie di casa Manzoni (BookTime, pagg. 68, euro 7) con i contributi di Angelo Stella, Paolo Mazzarello, Mariella Goffredo, Emanuela Sartorelli, Gianantonio Borgonovo e Armando Torno. Cuore del volume è, naturalmente, lo scritto di Mazzarello, medico e docente di Storia della medicina all'Università di Pavia, che getta luce sulla mente e sul corpo di Manzoni, «bambino non desiderato, nato per caso e subito lasciato alla sua solitudine», tratteggiandone una cartella clinica redatta anche grazie all'insostituibile contributo dei carteggi familiari: ansia anticipatoria, agorafobia, attacchi di panico, disturbi psichici e poi lei, la tubercolosi, la principale causa di morte, secondo il medico, di tutta la famiglia.
Da ultimo, non slegata dalla sua salute è la religiosità di Manzoni. Come nota Mazzarello «tramite la fede Manzoni incontrò in quel momento anche un argine alle sue fragilità».
E che il milanese non avesse fiducia nei medici quanto piuttosto nella preghiera lo fa dire a Renzo ormai malato di peste: «Si curò da sé, cioè non fece nulla; né fu in fin di morte, ma la sua buona complessione vinse la forza del male».
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