"Struggente o perfido. Come dirsi addio da Brontë ad Anaïs Nin"

La scrittrice Cristina Marconi ha curato un'antologia di lettere nelle quali l'amore finisce. Anche se a volte...

"Struggente o perfido. Come dirsi addio da Brontë ad Anaïs Nin"

Dice Cristina Marconi, scrittrice, un baccalauréat in Francia e una laurea alla Normale di Pisa alle spalle, di amare «certi libri un po' secchioni», e allora forse è anche per questo che la sfida di una antologia di lettere d'addio le è parsa subito interessante. Perché si è accorta «che un'antologia del genere non esisteva» e così, dopo un lavoro piuttosto lungo di ricerca, è nato Come dirti addio. Cento lettere d'amore da Saffo a García Lorca (Neri Pozza, pagg. 286, euro 19).

C'è tristezza in questi addii?

«Non per forza, anzi. Per me l'addio è un nuovo inizio: l'idea era proprio quella di indagare il modo in cui la gente scrive quelle che sono pagine di autobiografia. Poi mi sono accorta di una cosa».

Quale?

«Che quelli che più fanno arrabbiare sono coloro che non dicono addio; il cosiddetto ghosting, di cui anche io sono stata vittima, in passato. Forse una di quelle lettere l'avrei voluta ricevere io».

La lettera è morta, eppure la lettera d'addio è rimasta?

«Sì, è sparito l'oggetto lettera, ma trascorriamo le nostre vite a scrivere: una passione epistolare da far impazzire una damina del Settecento. D'altra parte, alcune di queste lettere sembrano messaggi su whatsapp, con postille, aggiunte, passaggi ad altre lingue...».

Ci raccontiamo continuamente.

«E la lettera d'addio è una missiva rivolta a sé, un momento di narcisismo: ci si mette in bella luce, si vuole essere rimpianti. E poi oggi, in tempi più libertini e in cui tutto è più veloce, c'è anche di più l'esigenza di salutarsi e di scaricarsi. E poi non racconto solo grandi amori, ma anche amorazzi, come quello fra Rodolphe Boulanger e Emma Bovary, o fra Anaïs Nin e un suo giovane amante, Lanny, che viene massacrato...».

Ci sono lettere piene di rancore e vendetta.

«Ci sono sfoghi, anche maledizioni: siamo umani. Non è una raccolta di lettere sospiranti. In quanto antologia, poi, mi ha permesso di scoprire o riscoprire cose. Come i samurai gay del '600, nell'epoca flottante giapponese, i quali, prima di morire - e si uccidevano alla prima offesa - si scrivevano lettere d'addio».

Ci si può ispirare al suo libro?

«L'aspetto divertente è proprio questo: dovrebbe essere un vademecum per chi pensa di fuggire senza dire una parola... Anche due righe, come quelle di Flaubert, micidiali, a Louise Colet, sono meglio del silenzio».

È sicura? Quel «Non ci sarò mai» è raggelante.

«Raggelante e anche così attraente: sembra proprio l'uomo che non deve chiedere mai, se lo ricorda, quello della pubblicità? Io non sopporto le lagnette, preferisco una porta in faccia. Tutto è meglio del silenzio, il silenzio fa ammalare».

Forse anche colui o colei che tace?

«La domanda è quella: ma sei sicuro che sparire sia stata una buona idea? Non stai peggio tu di me? Comunque non è una carrellata di strazi, ecco, a partire dalla razionalissima Ninon de Lenclos, che scrive: È sempre colpa nostra se qualcuno ci è infedele. Una che avrebbe potuto tenere testa al più bastardo del libro, che è Valmont».

Il Visconte delle Relazioni pericolose, col suo celebre «non è colpa mia». Non è anche lui manipolato?

«Eh sì, è il pollo che pensa di spennare e finisce spennato; ma causa una catastrofe, per la quale merita l'inferno».

Le lettere d'addio ci offrono prospettive nuove su personaggi noti?

«Napoleone su tutti. È uno scrittore fenomenale: come epistolario, lui e Flaubert sono allo stesso livello».

Alcune sono grandi lettere d'amore.

«C'è quella di Nadja a Osip Mandel'stam: lui non c'è più, e il suo è un atto estremo di conservazione. Per me però la lettera più bella è quella di Charlotte Brontë a Constantin Héger».

Il futuro «professore»?

«Mi uccide. Mette la sua anima interamente su carta, rinunciando a qualunque vezzo, in modo potentissimo. È una lettera di grande solitudine e grande disperazione, nella quale, però, si intravede tutta la sua ricchezza».

La più perfetta?

«Quella di Albertine a M., nella Recherche. Addio, ti lascio la parte migliore di me».

La prima che ha scelto?

«Quella di Dylan Thomas a Caitlin: stavo lasciando Londra dopo undici anni e questo tipo di britannico ubriacone un po' sopra le righe mi mancava...».

Qualcuna l'ha stupita?

«La più triste è quella di Edith Wharton, una donna affermata che implora un uomo tanto meno talentuoso di lei: la facevo più sicura di sé. E poi Einstein, che mi aspettavo un po' meno bastardo».

La più cattiva?

«Per perfidia e brutalità, la lettera di Anaïs Nin. E poi quella di Flaubert. Ma, per meschinità, quella di Einstein a Mileva Maric».

Le più belle?

«La mia terna è: Brontë, Albertine, Flaubert».

Che cosa ci dicono queste lettere?

«Che la semplicità è più efficace di qualunque ricciolo. Sono lampi, lame affilate, come quella di Emily Dickinson: è la capacità di andare dritto alle cose, di non prendere le cose con le pinze. Non è un libro di pinze...».

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