«Viaggiare in aereo - scrive Don DeLillo in un saggio sulla tragedia dell'11 Settembre - ci ricorda chi siamo veramente». Da questo assunto parte anche David Szalay nel suo nuovo romanzo Turbolenza (Adelphi, pagg. 349, euro 15, traduzione di Anna Rusconi). Romanzo perché, come nel precedente e autentico capolavoro Tutto quello che è un uomo (sempre edito da Adelphi), pur trattandosi di racconti con protagonisti diversi a unirli è un filo rosso ben delineato. Se Tutto quello che è un uomo è destinato a diventare uno dei grandi romanzi degli ultimi decenni, il nuovo Szalay va più incontro al lettore, è quasi più furbo dal punto di vista narrativo, forzando spesso la sua natura di scrittore non ancora conformato alle logiche editoriali del vendere. Tra queste pagine è più leggibile, senza dubbio, ma un pochino svilente rispetto al potenziale di autore elegante e forse per pochi: qui tenta la (s)vendita e il risultato è buono, ma non eccellente. Colpa anche di un'edizione italiana che, rispetto a quella inglese, è pessima, con passaggi in cui i «motori ronfano», le Mercedes d'epoca diventano «vetuste» e i congiuntivi sono usati in totale dimenticanza di qualsiasi regola di sintassi.
L'autore, nato a Montréal nel 1974 e da anni residente a Budapest, ci racconta come oggi il viaggiare sia sempre più una metafora della finzione dell'essere umano. Facciamo finta, a 10mila metri da terra, che essere seduti su una poltrona a guardare un film o a bere un cocktail sia normale: non c'è nulla di normale. Com'è possibile che un aereo viaggi sospeso in aria? Chiaramente, ci riferiamo alla metafora: sarà anche il progresso, ma cosa comporta illuderci che tutto sia naturale? È naturale viaggiare da Londra a Madrid, da Dakar a San Paolo, sino a Toronto, Delhi o Doha in poche ore? Per millenni non lo è stato sino alla «turbolenza», che comporta anche il «consumare» la vita come l'amore: alla stessa velocità del suono. Ecco, la differenza è questa: tra suono e musica. La musica è un'altra storia, la musica sono le parole dello Szalay di Tutto quello che è un uomo, mentre tra queste pagine sentiamo un suono meno naturale, più artificiale.
Come le storie che racconta: storie al terminal dell'amore, dodici racconti che intrecciano amori volanti e amori filiali, donne in aria che si affidano a uomini come noi che crediamo all'illusione della normalità di volare. La struttura del libro è molto simile, forse troppo, a Girotondo, opera teatrale di Arthur Schnitzler ambientata nella Vienna di fine '800 con storie d'amore dall'aria molto simile per il loro consumarsi in una andata e ritorno. Con continui interscambi tra gli scali delle città citate, Szalay riesce comunque a dipingere acquerelli dalle sfumature paradossalmente ottocentesche: perché dietro all'apparente velocità c'è sempre un romanticismo che nascondiamo o che dimentichiamo e che lo scrittore ritrae in modo eccellente. Come quando Marion, una delle protagoniste, da Toronto a Seattle vede dall'alto i paesaggi deserti del North Dakota e ricorda la cittadina dove è nata: «Lei stessa veniva da un posto del genere: duro e ostile a tutto ciò che mancava di evidente utilità. La gente diceva che aveva la testa tra le nuvole, e in effetti era vero che le piaceva guardare il cielo...».
David Szalay - che presenterà Turbolenza domani a Pordenonelegge (ore 17,30 all'Auditorium della Regione, presentazione di Federica Manzon) - ritrae dodici personaggi in cerca d'autore: perché lui è abilissimo nello scrivere, ma chiede a noi di slacciarci le cinture di (in)sicurezza, citando nell'ultimo capitolo una frase di John Fitzgerald Kennedy: «Perché, in ultima analisi, ciò che ci unisce davvero è che abitiamo tutti questo piccolo pianeta, respiriamo tutti la stessa aria, abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. Anche se alla fine siamo tutti mortali».
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