L'Irlanda è uno straordinario giacimento di tesori poetici. Il passato celtico, intriso di magia, dove naturale e sovrannaturale si toccano e intersecano, un cattolicesimo dal generoso cuore pulsante, un senso di fiera ribellione in nome della propria indipendenza fanno in verità di quest'isola all'estremo occidente dell'Europa una capitale dello spirito europeo e della letteratura mondiale.
Jonathan Swift, Oliver Goldsmith, Oscar Wilde, Bernard Shaw, William Butler Yeats, Samuel Beckett, James Joyce: tutti questi giganti hanno sangue irlandese. Chi come me ama appassionatamente l'Irlanda, apprezzerà l'uscita di un volume come quello di Piero Boitani (Veder cose, Mondadori, pagg.394, euro 30, corredato da magnifiche foto) che non è una antologia né un saggio critico, ma è entrambe le cose nel racconto, come suggerisce il sottotitolo, di un viaggio dentro la poesia irlandese. Parte dal Canto di Amergin, del XII secolo, e non potrebbe partire meglio per dare la misura dello spirito celtico: «Io, vento del mare/ Io, onda dell'oceano/ Io, fragore dei marosi/ Io, cervo dalle sette corna/ Io, falco della roccia/ Io, raggio del sole». Una meravigliosa potenza cosmica, in cui sono coinvolti l'io e l'universo. Altri grandi testi medievali sono La grande razzia, poema epico che presenta il giovane eroe Cuchulain, l'Achille celtico, e La navigazione del Santo Brandano, che racconta il viaggio per mare del monaco Brandano e le sue mille avventure tra isole magiche, mostri e visioni. Anche se dal Medioevo arriva sin quasi ai nostri giorni, con Thomas Kinsella, John Montague, Eiléan Ni Chuilleanain (1942-), autrice di una femminile rilettura del mito di Odisseo, un po' come ha fatto Alice Oswald con l'Iliade, in realtà il libro di Boitani è soprattutto incentrato su due figure, di cui in appendice viene anche tracciato un profilo biografico: William Butler Yeats, e Seamus Heaney.
Mi rallegro leggendo il giudizio sommamente positivo su un testo-chiave dell'opera yeatsiana come Leda e il cigno, che tradussi tantissimi anni sottolineandone la potenza mitopoietica, per la quale Boitani richiama Omero e Dante, Shakespeare e Goethe. Non dimentico il tempo in cui molti poeti italiani anche di spicco diffidavano di Yeats, così si espresse una volta con me Giovanni Giudici, e se ne tenevano lontani. Oggi Yeats appare come un autore capitale nel Novecento, con le sue metafore, le sue visioni, la sua propensione alla magia e insieme la forza del suo pensiero, la sua capacità di restituire alla poesia la forza del mito, sia quello sensuale, brutale, epifanico del cigno divino che copre Leda e la ingravida, sia quello di Sailing to Byzantium, che «attinge a una rarefazione ieratica» estranea ai sensi. Maud Gonne, la donna amata e irraggiungibile, la torre di Thor Ballylee, sua tanto desiderata dimora, tutto diventa simbolo nella stessa vita di Yeats.
Per Seamus Heaney è diverso. Yeats è troppo aristocratico e troppo poco cattolico per essergli padre. Heaney viene dal mondo contadino, lo rivendica in quella sua celebre poesia Scavare: il nonno e il padre scavarono la terra con la vanga, lui ora si trova a scavare il linguaggio, a usare la penna per salire dalla terra al vento. La fortuna di Heaney in Italia, al contrario di quella di Yeats, a cui pochissimi poeti si sono ispirati, tra tutti Rosita Copioli con infinita devozione, è stata subito vastissima e condivisa, favorita dal Nobel in misura maggiore di quanto avvenga di solito. Quando nel 1995 io e Dante Marianacci, allora direttore dell'Istituto di Cultura Italiana a Dublino, proponemmo Heaney al premio Flaiano, nessuno della giuria l'aveva mai sentito nominare, neppure Mario Luzi, che con la sua gentilezza mite e dolcissima ci disse che non lo conosceva, ma si fidava di noi. Heaney venne a prendere il Premio, contento perché con dieci milioni delle vecchie lire si sarebbe rifatto la libreria. Era presente l'ambasciatore irlandese, e ricordo il sorriso imbarazzato di Seamus quando dovette andare a salutarlo, in effetti aveva la camicia mezza fuori dei pantaloni, degli impensabili sandali su calzettoni di lana grigia, la chioma bianca tutta in disordine. Da lì a pochi mesi avrebbe ricevuto il Nobel, in tight davanti al re di Svezia, e avrebbe potuto rifarsi ben più di una libreria. Lo conoscevo da molto prima, e devo dire che non cambiò. Rimase quel poeta coltissimo e umile, senza nessuna postura di maestro. Quando cercavo di farlo parlare dell'IRA e di Bobby Sands, lo vedevo intristirsi, diventare elusivo. Dovevano risuonargli agli orecchi le parole di Danny Morrison, portavoce del Sinn Fein, che lui stesso aveva fatto echeggiare in una sua poesia, Rotta di volo: «Quando cazzo scriverai qualcosa/per noi?». Quando diventerai un repubblicano rivoluzionario? Ma questa non era la natura né il destino di Seamus Heaney.
Continuò a scavare con la penna, a confrontarsi con Dante, a girare in auto per l'Irlanda pensando i suoi versi mentre era alla guida, battendo il ritmo sul volante. Salendo dalla terra, bellissima e insanguinata, al vento limpido della poesia.
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