È buona norma, specialmente quando ci si recensisce tra colleghi scrittori, badare bene che non intercorrano debiti, obblighi a destare sospetti (non sempre infondati) di piaggeria, come ricorda il proverbio: una mano lava l'altra.
Ed è doppiamente buona norma quando il recensito sia anche il fondatore e direttore del più importante festival letterario italiano.
Bene, dunque. Io non sono un frequentatore di Pordenonelegge, e Gian Mario Villalta non è mio amico. Lo dico per fugare ogni dubbio: tra noi non ci sono debiti di nessun tipo.
E lo dico perché sia chiaro che, se affermo che Gian Mario Villalta è un grande poeta, degno erede e continuatore della grande linea poetica italiana, non c'è alcun interesse in gioco. Al massimo (ma non credo) avrò preso una cantonata.
Dove sono gli anni (Garzanti, pagg. 204, euro 18) è la nuova raccolta poetica di Villalta. Una parola fugge il dominio del tempo, si aggrappa alle figure presenti in una fotografia, al paesaggio casuale retrostante, oppure a un ricordo improvviso, o ancora a un'immagine sottratta alla trama tirannica di un presente votato alla dimenticanza.
Qualcosa resiste, e resistendo chiede tempo, dedizione, ostinazione, e ci vuole parlare, e vuole gridare. Ma la sua lingua ci è ignota, e il suo grido è silenzioso. Ci vuol tempo, anni credo, per decifrare quella lingua, per sentire la voce che articola il grido, per comprendere che quella voce è la nostra.
Un libro di poesia è questa cosa, forse la più difficile che ci sia. Un'urgenza, un'irruzione, un precipizio che chiede però tempo e infinita pazienza, come nelle fiabe. Se penso al tempo mio diventa ora di tutti/ - il tempo - se mi perdo nel tempo ridivento io.
La nostra voce unica e irripetibile emerge piano piano da un coro di voci amiche, amate, conosciute, studiate. E il pretesto esistenziale che dà origine all'opera può farla giungere in porto solo ascoltando la voce di quel coro, che è la voce della grande poesia italiana, la voce/vocazione che ci chiama, silenziosa. Sei nella voce che chiama, sei nella voce che tace/ ma ti nascondi in me stesso in te stessa/ umana natura, mai una e infinitamente/ l'una, splendente (...)
Un fitto catalogo botanico accompagna il lavoro di Villalta - come accade nel suo amato Pasolini, ovviamente in Pascoli ma anche nel misconosciuto Carducci e soprattutto nel poeta che l'opera di Villalta più richiama alla mia mente: il mio amatissimo Carlo Betocchi.
La poesia, come la madeleine di Proust, è quell'evento sempre inaspettato che ci riporta a noi stessi, quando rientriamo a casa delusi del nostro ordinario inverno con i suoi modesti raffreddori: Le mani hanno creduto, obbedito al tempo.// Quante volte hai sbagliato e lo sapevi dopo/ la curva dei pensieri, il muro dei sensi, i desideri/ ostinati a tenerti il cervello altrove.// Troppa realtà, troppa solitudine (...)
Il fuoco che non si spegne, ricorda Montale, si chiama ignoranza. La poesia si accende sul fondo della nostra comune ignoranza. Resti lo stesso, non hai voluto guarire,/ né sapere perché fa male, quando viene la gioia/ non sai da dove.
Nella poesia si rivela il mondo che noi rifiutiamo, vestendo di continuo i panni di qualcun altro, nell'«inganno consueto». E la sua luce non lascia in pace. E ogni volta ogni cosa è diversa mentre lascia lo sguardo/ diversa mentre perdura nella luce di un attimo fa (...)
La lucidità con cui Villalta vive e testimonia la luce scomoda della poesia (perché la verità della poesia è scomoda, giudica, rivela ma non salva e non giustifica) non è però proprietà del poeta. La poesia è ovunque nel mondo, non oltre le sue tragedie e le sue ingiustizie ma dentro di esse, come nel testo più commovente della raccolta, dedicato a una festa per un matrimonio di operai. Parlano così forte, ripetono frasi, i denti guasti si vedono, sono felici/ oggi che la fabbrica è chiusa e si credono detti di nuovo nel candore/ sfacciato degli sposi (...)
Thomas Mann ricorda che la tristezza non è un sentimento, ma il fondo stesso della vita, con tutta la gamma dei suoi sentimenti. La poesia acuisce questo sentire, lo fa bruciante, l'istante della rivelazione non redime - come grida Clemente Rebora - gli istanti persi, anzi ne ravviva il bruciore: (...) che cosa ci stiamo a fare ti chiedi/ noi qui, portati via da noi stessi - chi c'è/ oltre la soglia - chi inventa la voce che fa male, da dove?
Nell'ascolto di una voce antica, del tempo andato via in uno sterro, in una ristrutturazione del paesaggio, e rimasto vivo in una fotografia, nel ricordo di una maglietta a righe, nei salici che non ci sono più, il poeta non abdica al presente. Nella parola poetica vibra la (stagione) presente, e viva, e 'l suon di lei. Questo bellissimo libro traccia la mappa di un istante per raccontarci meglio il presente, per non farcelo smarrire nella distrazione che produce scorie, buchi nell'ozono, isole di plastica.
Ma
qui bisogna fermarsi. Anche perché i libri di poesia in un certo senso non andrebbero recensiti: non chiedono una lettura e un commento, ma solo di stare con noi per il tempo, forse, in cui lo sono stati con il loro autore.
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