A un certo punto qualcosa si è rotto da questa parte dell'orizzonte, come se le vite avessero cominciato a smarrirsi, frantumandosi, deragliando, fino a impazzire. Questo vortice che va di fretta ma non punta da nessuna parte ha coinvolto il lavoro, la famiglia, i rapporti umani, il futuro sempre più in ritardo, fino a svuotare il proprio io, costringendo ogni persona a aggrapparsi solo alla maschera, sapendo che pure quella prima o poi si sarebbe sfigurata. Persa di vista la realtà, anche la finzione ha perso sostanza. È un destino di cui non si trova più la trama.
I romanzi di Leonardo G. Luccone ti portano dentro questo dramma che ti senti ogni giorno sulla pelle con il passo di chi non ti sta raccontando qualcosa che accade qui e adesso ma è tremendamente universale. È la nostra modernità che registra i suoi fallimenti. Luccone lo ha fatto prima con La casa mangia le parole e adesso con Il figlio delle sorelle (Ponte alle Grazie, pagg. 197, euro 16). I suoi personaggi non sono inetti, non sono malandrini, non sono orgogliosamente controcorrente e neppure lottano contro un destino più grande di loro. È solo gente che avrebbe potuto seguire una strada segnata ma per disdetta, senza sapere perché, si ritrova fuori rotta, un passo alla volta, con un moto quasi impercettibile dell'esistenza quotidiana. È come se uno sceneggiatore pigro, ma inesorabile nel suo cinismo, scegliesse giorno dopo giorno di modificare distrattamente la tua parte, fino a farti sbandare tanto da non riconoscerti più. È che queste figure non sanno, o si rifiutano di accettare, che si stanno incamminando verso una crisi di sistema. Luccone racconta le vittime inconsapevoli di un cambio di paradigma. La colpa, se c'è, è inseguire desideri che si trasformano in ossessioni alla cieca, senza rendersi conto che tutto intorno a noi sta cambiando. «La vita non è che un'ombra che cammina o un attore in declino che si pavoneggia per un'ora su un palcoscenico».
È così che i rapporti tra questi personaggi finiscono per raccontare come abbiamo perso le parole, come non sappiamo orientarci in un tempo che ha visto diseredare la classe media, la caduta della borghesia, l'incapacità di una coppia di invecchiare insieme, l'impresa a quanto pare impossibile dei genitori di dare un futuro ai figli e di lasciargli in eredità una mappa con cui orientarsi. È il racconto di come siamo diventati dislessici e disgrafici, perché non siamo più in grado di leggere o di scrivere la vita. «È successo perché siamo scivolati sulla polpa del tirare avanti, voltandoci dall'altra parte. Pensavamo di cavarcela con il riverbero del silenzio, perché non avevamo nemmeno il coraggio di mostrare il sorriso o le occhiaie».
Tutto questo è vivisezionato ne Il figlio delle sorelle. Il punto di partenza è una domanda che è politica e esistenziale: cosa si è disposti a fare per avere un figlio che non arriva? Tutto, fino a snaturarsi. Quel figlio che è un desiderio viene vissuto come un diritto inalienabile. Solo che in questa richiesta in apparenza legittima si arriva ai confini dell'umano, al limite di un buco nero che ti frantuma l'anima. I frammenti che restano, come nel caso del marito-padre che si eclissa, diventano voci. Voci su cui fondare la propria assenza, voci che ti parlano, ti rimproverano, ti inseguono, ti straziano. È la schizofrenia il senso della nostra realtà ed è con quella che dobbiamo fare i conti se vogliamo dare un senso al racconto delle nostre vite.
Luccone incarna senza pietà la narrazione interrotta di questo tempo. È il regalo che un giorno figlie e figli faranno a padri e madri. Rimettere insieme le frasi spezzate. «Per prendersi cura di qualcuno bisogna raccontare la storia, anche solo un pezzettino».
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