L'oro di Marcell Jacobs nei 100 olimpici sorprende, emoziona, schiaccia al muro per la potenza con cui è arrivato. Quello di Filippo Tortu nella 4x100 «no, no, non mi stancherò mai di ripeterlo» interrompe lui «non il mio oro, l'oro di noi quattro», l'oro assieme a Marcell, Patta e Desalu, agguantato con la sua ultima incredibile frazione, accarezza invece sentimenti, prende per mano sensazioni diverse, apre a riflessioni profonde. Perché rappresenta l'oro della squadra, del gruppo, ma è anche l'oro afferrato con forza, coraggio, eleganza e rabbia da una ragazzo che in quei cento finali aveva tutto il peso del mondo sulle spalle.
Quanto pesa il mondo.
«So che poteva sembrare così, ma la mia forza, la mia caratteristica, da sempre, è quella di non sentire mai le pressioni esterne. Ascolto solo le mie. E quelle pesano tanto. Non mi tocca minimamente il parere degli altri quando sono dietro i blocchi, non mi preoccupa che possano dire ah, ci ha deluso.... Perché quando vado male sono talmente a terra che il dolore arriva prima a me. La pressione mentre attendevo il testimone c'era, ovvio, ma era la mia, anche perché in quei momenti non esiste null'altro al mondo».
Però per due anni sei stato al centro di quel mondo, il record italiano tolto a Mennea, primo sotto i 10'' con 9''99, poi lo tsunami Jacobs che si è preso tutto.
«Non curandomi dell'esterno, non avevo dato troppo peso neanche alle lodi dei due anni precedenti. Certo, uno che va più veloce di te è uno stimolo, a nessuno piace arrivare secondo. Che sia Marcell con cui gareggio da una vita o Coleman o De Grasse non cambia. Atleti più forti ci sono. Ma non è questo che ti dà la motivazione a sacrificarti. La motivazione arriva sempre da dentro non da fuori. Il fuori ti regala l'1% di prestazione».
Però dopo l'oro di Jacobs il rischio di pensare «mi sta sfuggendo tutto» poteva esserci...
«Nessun panico, solo la brutta sensazione di essermi giocato male i 100 olimpici. Ho pensato: Oddio, adesso devo aspettare per riprovarci, ho atteso tutta la vita per dare il massimo qui e non l'ho fatto. Questa l'unica sensazione che mi ha fatto soffrire fra le due gare. Quando aspetti qualcosa da tutta la vita non ti interessa nulla di quello che vincono o fanno gli altri, non ti tocca. Ero semplicemente troppo giù per come avevo corso io. Quello mi dava dispiacere. L'idea che non ci fosse modo di rimediare».
Invece c'era.
«Vero. La staffetta. È stata la cosa più bella che mi sia mai capitata. Però vedi come sono? Comunque non toglie il fatto che io fossi andato male nei 100 metri. Mi dava invece serenità sapere che guardandomi indietro non c'era stata una sola volta in cui mi fossi potuto rimproverare qualcosa, una sera a far tardi, un allenamento mancato. Questo, seppur nella difficoltà, mi ha tranquillizzato. Così il giorno della staffetta mi sono detto è l'ultima volta che correrò in questo stadio e in questa olimpiade, per quanto ne so potrebbe essere l'ultima di sempre ai Giochi, non voglio che sia un ricordo amaro, voglio tornare a casa soddisfatto al 110%. Quando è arrivato il testimone avevo in testa solo questo».
A tuo modo, era il peso del mondo di cui parlavamo.
«Si, un po'».
Messaggio ai giovani? Non mollare mai anche quando tutto si complica?
«Il messaggio è soggettivo. Lo puoi trovare in tutto ciò che fai come in niente. C'è chi guarda la nostra staffetta o la mia frazione e non vede nulla pur conoscendo la storia. È come ascoltando una canzone o guardando un quadro: c'è chi sente qualcosa, chi vede qualcosa. Altri niente. A me piace pensare che chi recepisce è perché vuole recepire. Alla fine è solo una corsa».
La solitudine in quei momenti.
«In quei giorni difficili tra i 100 andati male e la staffetta ero proprio io a voler restare solo. Ricordo le persone che bussavano, persone che mi conoscevano e sapevano che preferivo restare da solo. Mi salutavano timidamente con la mano dalla porta mezza aperta, magari bussavano solo, era vicinanza, affetto, e io solitario, lo ammetto, in quei piccoli gesti ci ho visto un'ancora di salvezza».
Un momento, un attimo, qualcosa che non dimenticherai?
«Moltissimi. Però ne scelgo uno: quando passando un ponticello è apparso da dietro dei teli il campo d'atletica dove mi sarei allenato. Lì mi sono proprio detto: Sono arrivato alle olimpiadi. Ero con mio padre, sapevo del sogno condiviso. Era gioia allo stato puro. Gioia che si è ripresentata giorni dopo, tagliando il traguardo della staffetta. Gioia che sparita dopo i 100 è riapparsa all'ultima frazione con gli interessi».
Momento magico anche perché eri con tuo padre?
«Sicuramente. Sapere che in quel momento stavo facendo parte dei Giochi e che papà con cui mi alleno da sempre stava provando la stessa cosa ha reso tutto più intenso. In fondo eravamo due appassionati che realizzavano il loro sogno».
Molti, la maggior parte, dei ragazzi si affrettano a marcare il distacco dai genitori. Tu invece sei legato per amore e per professione. Si perdono qualcosa ad essere così frettolosi?
«Ognuno ha la propria situazione personale. Io do per scontato che gli altri l'abbiano simile alla mia, però so che non è così. Quel che per noi giovani è difficile comprendere è che un genitore - e l'ho provato anche io - quando fa una scelta per te vede più in là e lo fa sempre per il tuo bene. Bisogna fidarsi, lasciarsi andare, affidarsi anche se vorremmo essere padroni di noi stessi fin da subito e al 100%»
Un padre protegge. In questi mesi complicati, prima dei Giochi sono arrivate anche molte critiche, l'hai protetto anche tu.
«Papà sa difendersi. Ma indirettamente credo l'abbia aiutato vedermi correre così bene e veloce in staffetta. Lui, sbagliando, si sente sempre responsabile per come rendo. Ma se in allenamento vado bene e poi manco la gara, la colpa non è sua. Quel che mi ha dato e mi dà fastidio enorme, che mi fa arrabbiare, sono le critiche senza fondamento verso di lui, gente che non ha mai visto un allenamento dei nostri. Come fare una recensione negativa senza aver visto il film. Io accetto le critiche costruttive, non quelle fatte per attaccare la mia persona e quella di mio padre. È cattiveria gratuita».
Ieri l'altro l'annuncio della tua seconda positività.
«Sì, ma sono totalmente asintomatico, non ho niente, anzi, prima di risultare positivo, essendo asintomatico mi ero allenato in modo intenso e perfetto senza riscontrare alcun calo. I vaccini funzionano, è diverso dallo scorso anno. Mi sento davvero molto bene. Pensa che l'avevo fatto solo per precauzione in vista di una serata con mio cugino. A breve rifarò il tampone e via...».
E domani è già il 2022. Livio Berruti, a cui sei legatissimo, è molto contento visto che andrai finalmente a correre anche la curva dei 200. Non più solo i 100.
«L'anno che viene io sarò 100% sui cento metri e 100% sui duecento metri. I 200 saranno la gara che andremo a finalizzare di più, ma l'allenamento dei 200 non toglie nulla a quello dei 100. L'obiettivo è di andare molto veloce in entrambe le distanze. Correre come correva lui i 200 sarà molto difficile, la curva che faccio io oggi è troppo lontana dalla sua...».
Dicono che il suo segreto fosse la passione per il pattinaggio su ghiaccio. Aveva imparato a inclinarsi benissimo e aveva caviglie fortissime.
«Io amo lo sci e anche lì rinforzi caviglie e pieghi. Ma non posso più praticarlo per non farmi male. E non so pattinare. Diciamo che oggi sto seguendo quell'altro consiglio di Livio sulle curve....»
Quale?
«Mi ha detto che per saper apprezzare la curva in pista devi saper apprezzare anche le curve femminili. Per cui, se nel pattinaggio non posso lanciarmi andare, se non altro mi cimento seguendo l'altro consiglio».
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