Per gentile concessione dell`editore, pubblichiamo uno stralcio di Dio abita in Toscana (Rizzoli, pagg. 416, euro 19; in libreria da domani) di Antonio Socci. Il giornalista e scrittore accompagna il lettore in un suggestivo viaggio nella Toscana che ha saputo cogliere e ritrarre il volto e la presenza di Cristo. Inevitabilmente, il percorso dovrà deviare per un attimo verso Roma, dove i toscani, come Michelangelo, hanno trovato ricche committenze grazie ai Medici, famiglia di banchieri, cardinali e pontefici eccezionali. Ma visiteremo, con Socci, anche posti meno noti e più commoventi. Il Casentino, ad esempio, in provincia di Arezzo. In mezzo alla foresta e a strade tuttora non semplici, si sono svolte le vite di preghiera di monaci solitari, come testimoniato dal monastero e soprattutto dall`eremo di Camaldoli. Due luoghi dove il silenzio aiuta a sentire meglio la presenza divina.
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Si narra o meglio narra Giovanni Caselli che fu la guida che il re Carlo III, quando, nell'aprile 1986, era ancora il principe del Galles e fece il suo primo viaggio turistico in Toscana, arrivò a Firenze dove s'intrattenne con Umberto Eco e Franco Zeffirelli, invitati per l'occasione dai Frescobaldi.
Poi fu portato, con una lunga processione di Rolls Royce, a visitare Siena, la Val d'Orcia, Pienza e Montepulciano. Si incuriosì per la via Francigena l'antica via di pellegrinaggio che attraversa la Toscana verso Roma e volle dipingere un suo acquerello della chiesa di San Quirico d'Orcia.
A Montalcino gli fu offerto del formaggio pecorino, probabilmente di Pienza, e un calice di Brunello di Montalcino e il futuro re (scherzosamente?) «fece il gesto di inzuppare il formaggio nel bicchiere», forse confondendosi con i toscanissimi cantucci nel Vinsanto.
Ecco, dopo il primo istante di orrore per il formaggio e il vino, viene da pensare con indulgenza al gesto stravagante si spera umoristico del principe se lo si confronta con il disagio che provoca il sonnambulismo dei grandi flussi turistici che attraversano l'Italia e in particolare la Toscana (c'è una vera e propria «toscanomania»).
Quello svagato aggirarsi fra affollate aree monumentali finalizzato ai selfie; quella pubblicità che immortala le campagne senesi per fare lo spot dell'ultimo modello di auto; quelle promozioni turistiche e quei media che trasformano la Toscana in cartoline del banal grande, con l'inflazionatissima Venere del Botticelli (anche variamente abbigliata) o la solita Primavera o il David michelangiolesco (per non dire della superficiale «dantemania» che dilaga da qualche anno) che ci dicono?
È una Toscana plastificata, modaiola, un po' luna park, un po' cimitero monumentale, una sorta di grande e pittoresca Pompei.
Anche l'enfasi sui «siti dell'Unesco» sembra sguazzare nel recinto della retorica pubblicitaria. Un titolo del «Sole 24 Ore» annunciava: «Mille e una Toscana, patrimonio di tutti». L'articolo celebrava i primati dell'Italia e specialmente della Toscana nella lista dell'Unesco del «Patrimonio dell'umanità». Vengono in mente i souvenir turistici più kitsch, come la sfera di vetro «Made in China» con la neve che cade sulla torre di Pisa o su Firenze. È tutto un culto eccentrico della Toscana. Davvero fuori centro.
Ma già il Grand Tour dei rampolli e degli intellettuali dell'aristocrazia europea, che iniziò attorno al Seicento, era un falò delle vanità, la prima agenzia turistica moderna (su cui ironizzò pure Shakespeare nel Mercante di Venezia).
Proposto un po' come «cura della malinconia, vero e proprio mal du siècle del giovane intellettuale del tempo», un po' per «acquisire i rudimenti dell'arte diplomatica e delle lingue», il Grand Tour fondò la moderna idea del viaggio e del turismo «che ha ben poco a che fare con i lunghi soggiorni di studio negli atenei continentali e italiani in particolare, e quasi nulla con la pietas dei pellegrini o la prassi delle transazioni e degli affari di mercanti e banchieri» (Attilio Brilli).
Ma qual è dunque la Toscana vera? Qual è il suo centro, il suo cuore? Di che natura è la sua bellezza? C'è, al fondo della questione, un aspetto decisivo che Tomaso Montanari ha spiegato benissimo: «Abbiamo forse smarrito la ragione profonda per cui davvero ci interessiamo al patrimonio culturale e alla storia dell'arte: la forza di liberazione con cui apre i nostri occhi e il nostro cuore a una dimensione altra. Il suo latente, ma fortissimo, conflitto col tempo presente, con il mondo com'è oggi. La sua capacità di separarci dal flusso ininterrotto delle cose che passano, per metterci in contatto con ciò che sta in fondo al nostro cuore, ciò che ci lega davvero alla vita, ciò che le dà senso».
Come se nella bellezza che questa terra generosamente offre brillasse una scintilla della patria perduta, di quel Paradiso terrestre di cui sentiamo l'irresistibile nostalgia degli esiliati.
In fondo Dante con immagini simboliche proprio a Firenze ha collocato il suo Paradiso terrestre e il Botticelli ha rappresentato quella Firenze edenica nella cosiddetta Primavera.
John Milton, nel suo Paradise Lost, evocò le foreste dell'Abbazia di Vallombrosa, sul Pratomagno; Wagner rimase folgorato dal duomo di Siena che vide come la perfetta Sala del Graal (la leggenda del Graal dice che la sacra coppa era stata affidata ad Adamo proprio nel Paradiso terrestre e che con il peccato originale fu persa); e Ridley Scott, per Il gladiatore, cercando immagini che dessero l'idea dei Campi Elisi, nella scena finale della morte di Massimo Decimo Meridio, ha scelto un'inquadratura della Val d'Orcia, la località Terrapille, appena sotto Pienza. Forse non accade per caso.
Nulla è più rivoluzionario del Paradiso. E nulla è più appassionante del seguire una bellezza che promette di farci scoprire il senso della vita.
Per me il segreto della Toscana è lo stesso di Beatrice (per motivi che si scoprono leggendo per esempio maestri come Erich Auerbach o Charles Singleton).
Così lasciatemelo dire potremmo consegnarla al canto con i versi sublimi che il giovane Dante scrisse per la figlia dei Portinari: «E par che sia una cosa venuta/ Di cielo in terra
a miracol mostrare./ Mostrasi sì piacente a chi la mira,/ Che dà per gli occhi una dolcezza al core,/ Che intender non la può chi non la prova».*da Dio abita in Toscana (Rizzoli, pagg. 416, euro 19; in libreria da domani)
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