Per la prima volta in Italia, raccolti in due volumi, da minimum fax, I grandi racconti (pagg. 1380, euro 30) di Francis Scott Fitzgerald, l'autore di Belli e dannati e Il Grande Gatsby. Se negli States in molti paragonano Gatsby a Trump per la voglia di rivincita, il desiderio di essere ricco e non giudicato per la morale, il curatore Luca Briasco ha dato nuova linfa a queste short stories presentandole in ordine cronologico.
Certo Briasco nella prefazione ai racconti di Fitzgerald fa i salti mortali, cita i carteggi tra Fitzgerald e il suo editor Perkins quasi a giustificare che i racconti non sono quelli che Fitzgerald stesso considerava opere minori, venduti ai giornali (127 in tutto) solo per denaro e per ripagare se stesso in dollari sempre dissipati da una vita ai limiti del crollo tra realtà e finzione. Fitzgerald dopo i successi di vendita dei primi romanzi si trovava costretto a scrivere racconti per le maggiori testate letterarie americane perché troppo spesso in una costante bancarotta, non solo emotiva. Eppure rileggendo questi racconti ci viene in mente Ernest Hemingway che gli invidiava la capacità di scriverne uno al giorno: «Scott Fitzgerald ci invitò a pranzo con sua moglie Zelda e la sua bambina nell'appartamento ammobiliato che avevano preso in affitto al numero 14 di rue de Tilsitt. Scott ci fece anche vedere un grosso registro con tutti i racconti che aveva pubblicato ordinati per anno con i compensi che aveva ricevuto per ciascuno e anche gli importi ricevuti per ogni cessione dei diritti cinematografici, e le vendite e i diritti d'autore dei suoi libri. Erano tutti accuratamente annotati come su un giornale di bordo e Scott li mostrò a noi due con orgoglio impersonale come se fosse il curatore di un museo. Scott era nervoso e ospitale e ci fece vedere la contabilità dei suoi guadagni come fosse stato il panorama. Non c'era nessun panorama». (da I falchi non dividono, in Festa mobile, Mondadori, 2016). Invece Budd Shullberg (autore e sceneggiatore tra gli altri di Fronte del porto) a chi gli proponeva un film dai suoi racconti rispondeva: «Ma Fitzgerald non è morto?».
Anche in Italia il suo destino letterario all'inizio non fu dei migliori. Quando viene tradotto per la prima volta The Rich Boy, è inserito da Elio Vittorini all'interno dell'antologia Americana (Bompiani, 1942) con la traduzione di Eugenio Montale: il curatore infatti, oltre alla selezione del materiale, aveva accompagnato con una nota critica ciascuna suddivisione operata su quei testi, trasformando il libro in un manuale teorico sulla letteratura americana, e se Hemingway ne era stato considerato la luce, a Fitzgerald invece non era andata bene. Assieme ai dimenticati Kay Boyle, Evelyn Scott e Morley Callaghan, veniva proposto infatti nella sezione «Eccentrici»: uno scrittore minore e di poco conto. Eppure, malgrado i pregiudizi di Hemingway e Shullberg (il quale li ha esposti nel romanzo I disincanti) Fitzgerald è stato il primo, con Ring Lardner, a proporre uno stile narrativo pungente e attento ai dettagli. Pur non possedendo il piglio aggressivo di John Fante (circostanza che spiega la diversità delle loro storie personali) Fitzgerald è autore di culto in virtù della profondità di osservazione con cui ha raccontato gli Anni Venti, quelli del primo vero American Dream, e il decennio successivo, quello della disillusione (The Bridal Party è un racconto emblematico in tal senso). E poi ci sono i Racconti dell'età del jazz, che da soli valgono la lettura: Fitzgerald ne aveva già accennato in Giovani tristi, ma in quelle note trova una libertà avversa a tanti in quei tempi: era «musica negroide» per Julius Evola, Mondrian, Edgar Morin. E il titolo non è solo una provocazione: in realtà Fitzgerald già negli anni '20 intuisce come la musica jazz sia venata da una malinconia capace di intuire come quegli anni d'oro americani sarebbero diventati presto un incubo: la Grande Depressione come primo sintomo di una nazione che aveva fatto i conti con tutto tranne che con se stessa.
Come in Maschiette e filosofi, la prima raccolta pubblicata nel 1920: le maschiette (flappers) erano giovani ragazze dal taglio dei capelli maschile, protagoniste della prima vera rivoluzione femminile. Figlie di un'America uscita vittoriosa dalla Prima guerra mondiale e in pieno sviluppo economico, sono state soprattutto queste giovani donne a condurre la rivoluzione dei costumi in quella età del jazz e del proibizionismo.
Volevano l'emancipazione della donna; avevano uno stile di vita trasgressivo, guidavano automobili, bevevano, fumavano e avevano comportamenti molto libertini. Una rivoluzione non certo come quelle di oggi: un femminismo che lotta sulle parole.
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