Il primo a collegare l'8 settembre 1943 alla «morte della patria» fu un giurista e scrittore, Salvatore Satta, che affrontò il tema in un amaro, dolente e tragico De Profundis (Adelphi) scritto fra il giugno 1944 e l'aprile 1945. Lì egli fece notare come la «morte della patria» fosse «l'avvenimento più grandioso che possa occorrere nella vita dell'individuo» perché comportava la scomparsa della «nazione» come confortante punto di riferimento e vincolo di appartenenza a una realtà etico-politica legittimata dalla storia.
In seguito Renzo De Felice riprese il concetto facendo risalire il momento iniziale della «crisi della nazione», ovvero dello «svuotamento del senso nazionale», proprio al giorno nel quale fu annunciato l'armistizio dell'Italia con gli Alleati. L'8 settembre diventò, per lui, «la data simbolo del male italiano», che rimetteva in discussione «il carattere stesso di un intero popolo».
In effetti quella data fu un trauma senza precedenti: disorientamento degli animi, tracollo morale della popolazione, sbandamento dell'esercito privo di ordini o chiare direttive. Il trauma dell'8 settembre non è paragonabile neppure al dramma della sconfitta di Caporetto, riassorbita e annullata a Vittorio Veneto. In questo caso il riassorbimento del trauma non fu possibile perché erano venuti meno gli anticorpi: il monopolio del patriottismo da parte del regime, realizzato facendo coincidere il «primato della nazione» con quello del regime, aveva minato dalle origini la «mitologia della nazione» creata da Mussolini e precipitata rovinosamente il 25 luglio. In altre parole il crollo del fascismo, autoidentificatosi col nazionalismo, aveva trascinato con sé la stessa idea di nazione che nell'Ottocento era stata associata ai concetti di libertà e indipendenza dei popoli.
Vittorio Emanuele III, insieme al suo entourage e ai militari, aveva svolto un ruolo fondamentale nella fine del regime, come ha dimostrato l'ottimo e documentato volume di Paolo Cacace, Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (Il Mulino). La decisione di por termine alla dittatura e persino quella di procedere all'arresto di Mussolini erano, infatti, già state prese e definite nei particolari tant'è che, alla luce di questo fatto, deve essere ridimensionata l'importanza della seduta del Gran Consiglio del Fascismo della notte del 24-25 luglio 1943 nella quale fu approvato l'odg Grandi: una seduta e una conclusione che offrirono, al più, al Sovrano il pretesto costituzionale per intervenire e portare avanti una azione già da tempo pianificata.
Dopo la seduta del Gran Consiglio e l'arresto di Mussolini si susseguirono, nel corso dei famosi «quarantacinque giorni», tutti quegli eventi nomina di Badoglio a capo del governo, creazione del nuovo ministero, trattative con gli anglo-americani che portarono l'8 settembre all'annuncio dell'armistizio in realtà era già stato siglato alcuni giorni prima, il 3 settembre, dal generale Giuseppe Castellano a Cassibile.
La notizia venne diffusa improvvisamente, con un anticipo di quattro giorni rispetto agli accordi presi, alle 17,45 dell'8 settembre tramite un dispaccio della agenzia Reuters. Il direttore dell'Agenzia Stefani, Roberto Suster, prima di rilanciarla, ne cercò conferma ma i ministri cui si rivolse la smentirono perché non ne sapevano nulla. Poco dopo, alle 18 e 15, in un Consiglio della Corona, convocato da Badoglio alla presenza del Re, il generale Vittorio Ambrosio espose la situazione dicendo che l'annuncio dell'armistizio era giunto in anticipo rispetto alle previsioni. Ci fu chi sostenne che si dovesse dichiarare inaccettabile l'armistizio e creare un nuovo governo che riprendesse le trattative, ma alla fine prevalse l'opinione che ormai non poteva essere rinnegato un atto già siglato anche perché il non tener fede ai patti avrebbe comportato una pioggia di bombe sulla Capitale. Così alle 19,47 venne diffuso dall'Eiar il proclama di Badoglio che concludeva con le parole: «Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
All'alba del giorno successivo iniziò il trasferimento delle autorità politiche, civili e militari verso un territorio non occupato da tedeschi o alleati: fu, come venne polemicamente definita, la «fuga di Pescara». Qualcuno, come Ruggero Zangrandi in L'Italia tradita (Mursia), avanzò l'ipotesi che essa fosse stata agevolata da un accordo segreto con i tedeschi ma di tale intesa non v'è traccia documentaria all'infuori di sibilline e contraddittorie dichiarazioni di Eugenio Dollmann.
Che il Re e il governo dovessero lasciare la capitale non era scandaloso: era, anzi, atto di saggezza politica. Lo avevano fatto altri sovrani senza che si parlasse di «fuga»: il Re di Norvegia, la Regina di Olanda, il Re di Grecia, il Re di Iugoslavia. D'altro canto, era necessario non solo evitare la cattura di Vittorio Emanuele e di Badoglio, ma anche, e soprattutto, assicurare l'esistenza di un governo «legittimo» in grado di garantire la continuità delle istituzioni e quindi dello Stato. Peraltro, le modalità con le quali fu realizzato il trasferimento furono, secondo Giovanni Artieri nella sua bella Cronaca del Regno d'Italia (Mondadori), inferiori a «ogni più sciatta e sgomenta negligenza» sia per quanto riguarda la dimenticanza a Roma, quasi come «portacenere», di esponenti del governo a cominciare dal ministro degli Esteri Raffaele Guariglia la cui presenza accanto al Re sarebbe stata fondamentale per i rapporti con gli alleati, sia per l'improvvido coinvolgimento nella cosiddetta «fuga» di alti gradi delle Forze Armate partiti senza lasciare direttive precise.
Donde, il caos e lo sbandamento anche morale all'origine di quella crisi definita «morte della patria». Una crisi, però, che val la pena di sottolinearlo fu anche la premessa di una vera e propria «resurrezione della patria» che avrebbe portato alla costruzione di una nuova Italia, finalmente libera e democratica.
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