Così Wilson "esportò" l'America

La biografia del presidente degli Stati Uniti che ruppe l'isolazionismo prima della Grande Guerra

Così Wilson "esportò" l'America

All'inizio di gennaio del 1919 il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson (1856-1924) visitò alcune città italiane Roma, Genova, Milano, Torino nel quadro del viaggio in Europa per prendere parte ai lavori della Conferenza di Pace all'indomani della Grande Guerra. Nella capitale incontrò il Re Vittorio Emanuele III col quale attraversò le strade della città su una vettura scoperta e vide il Papa Benedetto XV, quello che aveva implorato di fermare «l'inutile strage». Ovunque, egli, primo capo dello Stato americano a calpestare il suolo italiano, fu accolto da grandi manifestazioni di entusiasmo. La figura alta e ieratica, il volto ossuto, il profilo segnato dal naso aquilino, gli occhialini a stanghetta, il sorriso aperto rimasero impressi negli occhi, e probabilmente anche nel cuore, di folle osannanti che in lui vedevano l'araldo della pace. Anche Benito Mussolini lo salutò dalle colonne di Il Popolo d'Italia elogiandone «lo spirito pratico e fattivo».

Poi, come è noto, molte cose cambiarono. La Conferenza della Pace non soddisfece le aspettative italiane. La convinzione che la vittoria fosse stata «mutilata» si fece strada. E mutò il giudizio di tanti italiani sul presidente americano che, al tavolo delle trattative, era rimasto sordo, addirittura ostile alle richieste dei diplomatici del nostro Paese. Il mito di Wilson, insomma, si sgonfiò. Esso era stato alimentato anche da un bel libro del grande storico e saggista francese Daniel Halévy, dal titolo Wilson e la democrazia americana, la cui traduzione italiana apparve proprio nel 1919 ed è ora riproposta da Oaks editrice (pagg. 206, euro 20) con un ampio saggio introduttivo di Francesco Ingravalle.

All'epoca della stesura di questo saggio, Halévy era già molto noto e aveva pubblicato alcune delle sue opere più celebrate, da La vie de Frédéric Nietzsche (1903) alla Histoire de quatre ans (1903), ed era un protagonista del mondo culturale e politico del suo paese. Espressione di un liberalismo conservatore definitosi attraverso un itinerario che, partendo dal saggio sulla libertà di John Stuart Mill, aveva incontrato le teorie elitistiche e il sindacalismo rivoluzionario Halévy scrisse di Wilson una biografia di tipo tradizionale che, però, seguiva il già sperimentato metodo di giungere alla caratterizzazione del pensiero e delle idee-guida del personaggio biografato attraverso la ricostruzione della sua vita. Era, certamente, un libro di attualità e di occasione che, tuttavia, tentava un primo approfondimento psicologico della personalità di Wilson.

Wilson viene subito presentato da Halévy come un discendente della «più militante delle aristocrazie», quella costituita dai «discendenti delle famiglie puritane» che avevano creato «i costumi, la cultura, lo Stato». Piuttosto «autoritario di carattere» e nemico degli «imbrogli» aveva «spirito risoluto» e «conclusivo»: da giovane «leggeva, osservava e comprendeva a fondo la lezione appresa dai libri e dai fatti». Si impose ben presto pubblicando saggi, a metà fra il diritto costituzionale e la filosofia del diritto, che gli valsero l'offerta di una cattedra di Giurisprudenza all'Università di Princeton, una delle più antiche degli Stati Uniti, dove aveva studiato e della quale sarebbe diventato Presidente nel 1902. Si trattava di una carica, osserva Halévy, non paragonabile al rettorato dei nostri atenei perché il Presidente d'Università era in «una posizione eminente» ed esercitava «una specie di magistratura spirituale» che lo rendeva «paragonabile a un vescovo dell'antica Europa».

Per quanto amasse l'Università, concepita come fucina della classe dirigente del paese, tuttavia, Wilson aveva la «vocazione della vita pubblica» e così divenne, prima, governatore del New Jersey e, poi, Presidente degli Stati Uniti. Quando pronunciò il discorso d'insediamento al suo primo mandato molti si commossero sentendolo parlare di «un'epoca nuova di diritto e di emancipazione» e richiamarsi a «sentimenti che toccano il cuore come se venissero da Dio, dove giustizia e pietà sono congiunte». Era stato eletto come candidato dei democratici e la sua presidenza si caratterizzò per una serie di importanti riforme amministrative. Poi venne la guerra, la Grande Guerra, ed egli riuscì a portare il paese riluttante nel conflitto. Infine, divenne alfiere, con i suoi celebri «quattordici principi» di una sistemazione pacifica dell'Europa postbellica garantita dalla Società delle Nazioni.

Il ritratto di Halevy è suggestivo e intrigante soprattutto laddove tiene a precisare che le origini del «sistema pacifista» di Wilson non andavano ricercate «lontano nel suo passato né nella sua opera scritta». E laddove aggiunge: «si è voluto fare di lui un discepolo tardivo dei filosofi del diciottesimo secolo; ed è inesatto: in politica è un realista ed un autoritario. Si volle mostrare in lui un discepolo di Kant: ma egli non è un moralista è un pratico».

Non so quanto questo ritratto che merita di essere letto, come tutti i libri di Halevy sia davvero rispondente alla realtà. Manca, per esempio, di sottolineare quella dimensione utopistica del suo pensiero e del suo agire che ne ispirò certi comportamenti. In realtà Wilson fu uomo di grandi capacità e di grandi difetti. Con il suo indubbio ascendente riuscì ad assicurarsi il controllo completo della maggioranza democratica ma non riuscì a stabilire buoni rapporti con i collaboratori perché lo ha osservato un grande americanista, Raimondo Luraghi la sua educazione calvinista lo portava a dividere il mondo fra chi aveva ragione (e lui, naturalmente, sentiva di essere nel giusto) e chi aveva torto. Peraltro, è anche vero che molte delle critiche gli sarebbero state rivolte in seguito da alcuni studiosi sono inesatte e acrimoniose. Quando, per esempio, gli si imputa l'insuccesso della Società delle Nazioni parlando di «inazione» della stessa non si tiene presente il fatto che, in quel particolare contesto storico del primo dopoguerra, la SdN non poteva non essere destinata al fallimento essendo percepita come una specie di sindacato dei Paesi vincitori, dal momento che in essa non erano rappresentati i Paesi vinti. Inoltre, in essa, alle origini, non vi erano neppure gli stessi Stati Uniti, il paese promotore, per la mancata ratifica del trattato di pace da parte del Congresso.

Naturalmente il libro di Halevy non si pone tali problemi perché la trattazione si ferma alle soglie della Conferenza della Pace di Parigi e, quindi, ignora le vicende degli anni successivi.

Ma è comunque, per il periodo della trattazione, un davvero libro importante perché quale che ne sia il giudizio storico-politico sul ventottesimo presidente degli Stati Uniti mette in luce, di Wilson, sia una certa dipendenza intellettuale dalla tradizione del costituzionalismo britannico (non già da quello francese) sia perché ne sottolinea una vocazione «messianica» alla base dell'abbandono dell'isolazionismo per quella politica di intervento che sarebbe stata fatta propria dai governi espressi dai democratici.

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