In questi giorni la comunità scientifica si interroga su quella che è per molti l’anomalia italiana. Qui di coronavirus si muore più che in Cina. Un’attenta analisi sull’alta mortalità del Covid-19 nel Belpaese ce la serve su un piatto d’argento, Edoardo Montolli su Fronte del blog. La prima causa della mortalità altissima nelle regioni del nord sarebbe da rintracciare nell’area del focolaio stesso. E nella mancanza di argini iniziali alla sua diffusione: andava circoscritta una zona rossa ben più vasta.
Ma andiamo con ordine. Tutto nasce da un attento studio che Montolli fa sul caso cinese. Il primo report dei medici cinesi sul coronavirus viene elaborato con l’ausilio di scienziati internazionali di molti altri Paesi. È il 24 febbraio 2020. E all’interno del paper vi è una considerazione piuttosto importante: a Wuhan, culla del focolaio, il tasso di mortalità è del 5,8%. Questo tasso di mortalità, prosegue lo studio, va degradando nelle altre aree della Cina fino a scendere allo 0,7%.
Il 21 febbraio Paziente 1 italiano viene scoperto al pronto soccorso di Codogno, ma soltanto al suo secondo arrivo in ospedale: qualche giorno prima era stato dimesso. Il giorno dopo si sa già che la persona che lo ha contagiato non è il manager che, tornato dalla Cina, lo aveva incontrato il 21 gennaio. E dunque non si ha idea di chi possa essere il cosiddetto Paziente 0. Ventiquattro ore più tardi, ossia il 23 febbraio, Pier Luigi Lopalco, professore di Igiene all’Università di Pisa, avverte: "È verosimile che in Italia siamo già, ormai, alla terza generazione di casi". L’avvertimento cade nel vuoto. Il 25 febbraio il Covid-19 ha già raggiunto 9 regioni e fatto 11 vittime su 328 positivi.
Ci dicono, spiega Montolli, che la mortalità è alta perché abbiamo una popolazione anziana, ma non è vero (il Giappone è lo Stato con la popolazione più anziana del mondo e ha una mortalità estremamente più bassa della nostra). Tutto starebbe nell’approccio al problema. Non trovando il Paziente 0, avrebbero dovuto dar retta al professor Lopalco. Dunque, ad una diffusione molto profonda nel territorio. E che quindi bisognava circoscrivere sì un focolaio, ma di ben altra grandezza. In Italia vengono identificati una decina di comuni intorno a Codogno, una cittadina che si estende per meno di venti chilometri quadrati. E il Comune di Vo’, in Veneto. In totale, una manciata di ettari. Ma Wuhan, considerato il focolaio cinese, si estende su quasi 9mila chilometri quadrati e la mortalità del 5,8% era tale per tutta la vastità di quel territorio, non per una minima parte. In Cina viene messa in quarantena l’intera provincia di cui Wuhan è capoluogo, ossia la provincia di Hubei, che si distende per circa 186mila chilometri quadrati.
In Italia le mosse di chi ci governa, sempre secondo Montolli, risultano inadeguate fin da subito. Ed ecco il punto: se noi prendiamo tutte insieme le regioni italiane con la più alta mortalità e che formano un unico gruppo contiguo, ossia Lombardia (23863 chilometri quadrati), Emilia (22452), Piemonte (25387), Marche (9401) e Liguria (5416) arriviamo a coprire poco più della metà della superficie messa in quarantena dalla Cina. Ad esse va aggiunto il Veneto, con una superficie di 18345 chilometri quadrati. Regione che però fa caso a sé. Avremmo dovuto mettere subito in quarantena non già il focolaio minuscolo del lodigiano, ma quantomeno sei regioni contigue, che tutte insieme non arrivano che a coprire che poco più della metà dello Hubei.
I cinesi calcolano che a Wuhan il tasso di mortalità fosse fino a 8 volte superiore al resto della Cina. E questo tasso di mortalità si estendeva non su una superficie di pochi ettari come nel lodigiano, ma su quasi 9mila metri quadrati. Il Veneto fa un po’ caso a sé, abbiamo detto. Perché l’infezione si diffonde in modo molto maggiore dove c’è una forte densità abitativa. Se la Lombardia al 21 marzo ha un tasso di mortalità del 12,1%, l’Emilia del 10.6%, le Marche del 7,1%, il Piemonte del 6,3% e la Liguria del 10,5%, il Veneto ha invece una mortalità molto più bassa: del 3,1%. Perché? Anche su questo lo studio cinese era piuttosto esplicito: il valore complessivo di mortalità varia in base all’intensità di trasmissione. Il che sembrerebbe significare che laddove il virus trova più densità di popolazione o riesce a trasmettersi più velocemente, riesce anche a diventare più cattivo.
Poi però le misure sono finalmente arrivate, anche se solo parziali. E i risultati arrivano: la percentuale di aumento del contagio giornaliero si è più o meno dimezzata, passando dal 27,6% a circa il 14%. Se quelle misure non ci fossero state e la percentuale fosse rimasta al 27,6%, al 21 marzo la Lombardia non avrebbe 25.515 contagiati, ma poco più di 83mila. Se le avessero prese per tempo, queste misure, verosimilmente avremmo un terzo di contagiati e molti meno morti.
Resta naturalmente la domanda più importante: perché in Lombardia e in Emilia (ma anche in Liguria, Piemonte e Marche) la mortalità non è simile, ma molto più alta del 5,8% di Wuhan? Il focolaio di Wuhan aveva una mortalità al 5,8%. Quello lombardo è al 12,1%. Ma quello lombardo sembra essere addirittura inferiore, in prospettiva, a quello di Madrid – luogo dove il coronavirus è giunto 9 giorni più tardi – di mezzo punto percentuale. Nell’ipotesi in cui la differenza tra Lombardia e Madrid fosse appunto solo un caso, non è però certamente un caso che la mortalità sia in queste due aree europee più alta che a Wuhan.
Nell’ipotesi in cui invece questa differenza aumentasse e a Madrid la mortalità diventasse superiore a quella lombarda, allora potremmo supporre che il Covid-19 diventa più cattivo a ogni focolaio.
Lo stesso ceppo che forse è arrivato direttamente da Wuhan in Lombardia e che però certamente dal nord Italia (verosimilmente proprio dalla Lombardia, dato che parliamo del 26 febbraio) è giunto a Madrid. È quindi un’ipotesi plausibile che il virus sia mutato e muti in maniera più cattiva ogni volta? Al momento non vi è alcuna prova scientifica.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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