Se perdiamo la faccia è tutta colpa del cervello

È una ferita dell'Io, un dolore figlio del giudizio degli altri: lo proviamo solo noi. Grazie al sistema limbico

Se perdiamo la faccia è tutta colpa del cervello

Ci vergogniamo così tanto, che ci vergogniamo anche a parlarne, della nostra vergogna. Chi arrossisce lo sa: basta cambiare colore sulle guance e tutti vedono quella debolezza, quella colpa, quella inadeguatezza, piccola o grande che sia. L'errore dal quale nessuno è immune. Eppure, per qualcuno è una sofferenza più che per altri. Papa Francesco ieri ha detto che «non dobbiamo avere paura di provare vergogna», perché il problema non è vergognarsi, «il dramma è quando non ci si vergogna più di niente».

Non è facile, perché la vergogna «è una ferita al nostro io, inflitta all'interno della società dallo sguardo dell'altro» spiega Laura Boella, docente di Filosofia morale all'Università degli Studi di Milano e studiosa proprio delle relazioni, a cui ha dedicato vari saggi, fra cui il recente Empatie (Cortina editore). In comune, l'empatia e la vergogna hanno il fatto di essere entrambe «emozioni relazionali». La vergogna però di solito è considerata in modo negativo: «Nasce da come gli altri mi guardano e mi giudicano e implica una crisi nella relazione: lo sguardo altrui mi fa sentire che ho riso e non dovevo, che ho pronunciato una frase sbagliata, che ero vestita male...». La reazione più immediata è ritirarsi in se stessi: «Nascondersi di fronte alla propria nudità, come Adamo ed Eva dopo il peccato originale. E rimuovere quella vergogna, perché è sgradevole, dolorosa».

Le parole del Papa rimandano a una possibilità diversa: «Penso sia un invito a elaborare e approfondire la lezione, anche dolorosa, della vergogna. Di solito non si vuole neanche parlarne. Invece dalla vergogna possiamo imparare, mettendola in comune con gli altri. Perché lo sguardo degli altri non è solo quello che ci inchioda: è anche quello che ci può aiutare». Dice Fausto Manara, psichiatra e psicoterapeuta, che quello della vergogna «è un mondo affascinante, che si porta dentro tanto altro, come la timidezza, gli attacchi di panico, la fobia sociale, l'ansia da prestazione». Un mondo che tendiamo a lasciare nell'intimo, anche se a volte esce allo scoperto, come quando si arrossisce: e allora «la persona si ritira ancora di più, perché ha vergogna della sua vergogna». E si arrossisce, spiega Manara, «perché i sentimenti deboli, come la timidezza, la gentilezza e la solitudine, non sono accettati nella nostra società. E così, anziché averne cura, pensiamo che si debbano curare».

Manara distingue tra la vergogna di cui parla il Papa e la vergogna «psicologica». La prima «è quella che dovrebbe essere provata da molti gaglioffi di vario livello sociale e ruolo, per le loro malefatte e i loro comportamenti contrari alle regole della buona convivenza». La seconda «nasce dal sentimento di sentirsi fuori posto rispetto a certi standard sociali e nei confronti degli altri, quindi da una bassa autostima; è una cattiva idea che abbiamo di noi stessi che ci fa incolpare di ogni errore, anche quando potremmo passarci sopra. Per esempio, la vergogna che spinge una ragazza a non uscire di casa perché ha due chili in più». Inizia da piccoli: «Dopo i due anni, a seconda di come ci hanno fatto sentire i nostri genitori. Per questa vergogna non basta confessarsi, lavarsi dei peccati e sentire il perdono... Tutti siamo esposti a problemi emotivi, se non ci vogliamo bene».

La nostra vergogna ha un luogo di nascita: il nostro cervello. «È una emozione, quindi dipende dall'attività del sistema limbico» spiega Arnaldo Benini, professore emerito di Neurochirurgia e neurologia a Zurigo e autore di Neurobiologia del tempo (Cortina editore, 2017). «Però ci si vergogna di qualcosa che si è capito, su cui si è ragionato: quindi il sistema limbico è collegato con i centri della razionalità. Ora, quando proviamo vergogna, rabbia, ansia, paura o un'ira furibonda, le aree del sistema limbico si attivano, e questo lo vediamo attraverso le risonanze magnetiche funzionali. Ne abbiamo la prova». Insomma, se uno si vergogna molto, è perché il suo cervello è fatto così? «Sì» dice Benini. Con due «però». Primo: «Di queste cose sappiamo pochissimo, perché quando il cervello e i meccanismi cognitivi studiano se stessi incontrano dei limiti, e li incontreranno sempre». Secondo: «Solo gli uomini provano vergogna, neanche gli animali più evoluti, come i primati, la provano.

Così come l'uomo è l'unico essere vivente che pratichi la crudeltà. E il non sentire vergogna è proprio crudeltà: avere gioia perché gli altri soffrono è un atteggiamento tipicamente ed esclusivamente umano. Eh, l'avrei fatto meglio, il nostro cervello...».

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