Corallo, il ribelle del cioccolato: "Combatto il bluff dell'amarezza"

Fiorentino, avventuriero e scienziato: sull’isola di São Tomé produce il cacao migliore al mondo: "L’amaro? Difetto, non sinonimo di qualità"

Corallo, il ribelle del cioccolato: "Combatto il bluff dell'amarezza"

il nostro inviato a São Tomé e Principe

Sostiene Corallo che il cacao puro sia dolce, che la leggendaria equazione per cui il cioccolato più è amaro e più è buono sia il peggior inganno gastronomico di sempre e che - una volta scoperta la verità - esistano «un prima e un dopo».

Ora, le rivelazioni religiose hanno ormai un fascino relativo, come i loro profeti. Ma l’idea di poter accedere al segreto più recondito del cioccolato e svelarlo agli uomini come Prometeo fece con il fuoco è una prospettiva ben più allettante. Per questo si sale su un volo per un arcipelago in mezzo al golfo di Guinea, si atterra in un aeroporto degno di certe scene di Banana Joe con Bud Spencer, si risalgono in jeep strade sterrate su cui scorrono cascatelle di fango e terra rossa come se si fosse sciolto il campo centrale del Roland Garros e si arriva a Terreiro Velho, paradiso perduto e regno ritrovato di Claudio Corallo da Firenze: l’«uomo del cioccolato».

Qui sull’isola di Prìncipe, che con São Tomé costituisce uno dei tanti staterelli africani nati dalla dissoluzione del primo e ultimo impero coloniale - quello portoghese -, Claudio è un’istituzione. «Eu sou Corallo, quello de’iccioccolato»: si presenta alla hostess in un creolo luso-toscano che tradisce le sue origini. Eppure, prima di trasferirsi qui nel 1998 e diventare il produttore di quello che esperti internazionali giudicano il cioccolato migliore di sempre, Claudio è stato anche molto altro. E mentre fuma e racconta la sua storia, nella notte equatoriale di un’ottocentesca casa padronale diroccata dove i rumori della foresta e delle cascate si confondono con i colpi di tosse, l’unico paragone che viene in mente è il Kurtz di Cuore di tenebra, il romanzo di Joseph Conrad simbolo dell’Africa nera.

Perché ci vuole un coraggio d’ebano per trasferirsi da Firenze allo Zaire a metà anni ’70, appena conclusi gli studi all’Istituto agronomico d’Oltremare: «Mi ero innamorato della foresta con i libri e i documentari. Sognavo solo di partire». Lungo il fiume Congo studia la produzione di caffè nei villaggi, impara la lingua lingala e poi si mette in proprio, prima come broker e poi come proprietario di due piantagioni. Accorgendosi di un dettaglio fondamentale che diventerà il pilastro della sua filosofia: «Caffè della stessa varietà, raccolti sullo stesso terreno, potevano diventare diversissimi.

La differenza la fa la mano dell’uomo».

Nell’ex Congo belga (poi Zaire e oggi Repubblica Democratica del Congo) rimane oltre vent’anni, vivendo peripezie da romanzo d’avventura.

Apre una rete di negozi per i suoi lavoratori, con una sorta di unità monetaria indipendente; si guadagna il rispetto dei locali e il nomignolo di «uomo dei fiumi» quando si tuffa di notte nelle acque infestate da serpenti e coccodrilli per disincagliare la sua chiatta; stringe amicizia con una civetta pescatrice e convince il pluriomicida «Pire Kinois», «il peggiore di Kinshasa», a risparmiare un suo dipendente che gli doveva dei soldi. Il commercio del caffè è la sua vita, la noia non esiste.

Quella vita finisce il 23 dicembre del 1998, con una fuga dalla guerra civile. 51 ore di navigazione senza sosta per iniziare una seconda vita, a São Tomé, appunto: duecentomila anime e un passato da primo produttore al mondo di cacao.

Qui Claudio arriva con la moglie e i tre figli e inizia a coltivare il caffè sui pendii di una delle tante roças, i villaggi - oggi in rovina dopo la gestione catastrofica del governo comunista - che sorgevano intorno alle case coloniali e alle piantagioni. Però sull’isola, da quando nel 1820 il re del Portogallo decise di importarle dal Brasile che stava diventando indipendente, sono le piante di cacao a crescere meglio. Prosperano in zone umide e ombrose, e qui, dove il labirinto della foresta è penetrabile solo da macachi e uccellini coloratissimi, ovviamente trovano il loro habitat naturale. «A me la cioccolata non è mai garbata», ricorda Claudio, che fa guizzare gli occhi azzurrissimi sopra i baffi bianchi. «L’ho sempre trovata amara. Mangiavo il Toblerone e all’uovo di Pasqua preferivo le sorprese. Del cacao ho sempre amato solo due cose: il rumore delle foglie mosse dal vento, quasi un fruscio di carta pergamena, e il profumo dolce della cabosse, il frutto appena spaccato».

Tanto gli basta per tuffarsi anche in questa nuova sfida, ovvero dimostrare al mondo che si può fare un cioccolato puro e non amaro: «Ho reperito campioni di tutti i migliori cioccolati per imparare. Erano tutti uguali: l’amarezza non era naturale, ma derivava da errori nella lavorazione spiega, mentre i pipistrelli svolazzano indisturbati in cucina liberandoci dagli insetti e sfiorandoci le teste -. Il cacao è esigente e comanda. Va raccolto, stoccato e fermentato con precisione e tempestività. Farlo ha un prezzo alto e le grandi compagnie hanno preferito investire in marketing, nel bluff dell’amarezza. La realtà è che per fare il cioccolato bono ci vole il 5% di fantasia, ma il 95% di lavoro rigoroso».

Ci guardiamo intorno. Qualcosa stride. Quest’uomo iper-razionale, una mente matematica da scienziato e una competenza tecnica impressionante, dalle barche alla chimica fino alla distillazione e alla botanica, per buona parte dell’anno vive da solo nel cuore della piantagione, in un angolo di pianeta pre-moderno che sembra odiare precisione e progresso. La casa non ha luce elettrica né infissi; di notte piove dentro; il bagno è in giardino, una canna a mo’ di doccia, nell’angolo ha la sua tana un serpentello; le assi del pavimento sono bucate. È una contraddizione evidente, ma non insensata: «Se la sistemassi - sospira -, aumenterei la “distanza” dalla Chica, Carlito, Arlindo e da tutti i miei collaboratori. In Africa, dove la situazione continua a peggiorare, queste cose pesano. È impossibile farsi amici veri: tu sarai sempre il bianco che paga, loro i dipendenti...». Impietoso, ma non fa una piega.

Improvvisamente, sulla veranda compare un ragno enorme. Spuntano dai buchi nel terreno quando è umido. «È una tarantola, Claudio?», chiediamo. «Nooo, è una migale».

Cerchiamo di farci coraggio: «Ah, quindi non è velenosa...». «Certo che è velenosa! E salta pure!». Deglutiamo preoccupati e torniamo al motivo del viaggio: che prezzo siamo disposti a pagare per scoprire il segreto del cioccolato?

Che poi, il segreto non è solo uno. È la qualità eccellente della varietà Forastero amelonado, con i frutti di un arancione meraviglioso. Ma sono anche i tini di fermentazione disegnati da Claudio per evitare sacche di ossigeno nocive, l’ossessività nel rispetto dei tempi, la lavorazione minima che mantiene le caratteristiche fisiche del cacao. È la «mano»: «Il cacao meno lo tocchi, meglio è. Chi viene da me in laboratorio (a São Tomé, dove ha casa e bottega e dove organizza degustazioni sempre più popolari fra i turisti, ndr), deve uscire con la voglia di fermare gli sconosciuti per strada e raccontare loro che ha assaggiato qualcosa di mai provato prima».

E in effetti il cioccolato di Corallo non ha paragoni. Sia che si assaggi il 100%, sia che si sgranocchino le fave tostate o si assaporino le praline allo zenzero, l’«Ubric» con le uvette ammollate nel distillato di polpa di cacao o i napolitains al sale e pepe, è un’esperienza unica per intensità e per questo godimento totale e multisensoriale. Lo ha capito per prima Velier, azienda genovese specializzata in distillati e prodotti di qualità senza compromessi, che lo distribuisce in Italia.

A chi si lamenta per i prezzi, Claudio risponde

serafico: «Il mio cioccolato è vivo. Non mi sono mai accontentato, piuttosto morirei». L’eccellenza ha tanti costi, economici, ma anche umani. Ciascuno decida quanto è disposto a pagare perché ci siano un prima e un dopo.

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