Retrocede la cultura, avanza la norma. Il nesso micidiale tra erosione del sapere e aumento delle regole è il tema del saggio L'appiattimento del mondo (Feltrinelli, pagg. 204, euro 22) di Olivier Roy.
Il sociologo francese, statistiche alla mano, conferma tutte le nostre peggiori sensazioni. La cultura alta è tramontata in nome di una democratizzazione del sapere che ha significato l'abbassamento (rasoterra) dell'istruzione, a ogni livello: dalla scuola dell'obbligo alle università. La crisi è generale. La cultura, intesa come insieme di tradizioni e stili di vita, è sotto scacco per un insieme di motivi: l'integrazione fallita o problematica degli immigrati; l'invadenza della globalizzazione; le rivendicazioni sempre più estese di minoranze reali o sedicenti; il tramonto del concetto di nazione; la permeabilità dei confini, a volte solo presunta; l'impatto devastante della Rete che ha sviluppato una miriade di sottoculture insieme frammentarie e mondiali; l'idea che il sapere nozionistico sia inutile perché sempre disponibile su internet; la convinzione fallace, sempre fondata sulle enciclopedie collettive del web, che la quantità di informazioni, superata una certa soglia, si trasformi in qualità; l'attacco alla grammatica in nome dell'inclusione; la nascita del globish, una lingua simile all'inglese ma ristretto a 1500 parole circa, utilizzata prima nei luoghi del potere politico ed economico, e ora in espansione a tutti i livelli. Ogni punto di questo elenco andrebbe commentato diffusamente. Non possiamo. Però possiamo fare un paio di osservazioni. Una lista così estesa presuppone la caduta dei pilastri dell'identità europea.
Alain Finkielkraut, in un saggio capitale intitolato L'identità infelice (Guanda, 2015) ha spiegato come l'Europa, dopo il colonialismo e le tragedie del XX secolo, abbia scelto di «denazionalizzarsi» e di rinunciare a «ogni predicato identitario». Scrive il filosofo sull'Europa: «Ha smesso di credere nella sua vocazione (passata, presente o futura) di guida dell'umanità verso la realizzazione della sua essenza. Per l'Europa non si tratta più di convertire chicchessia (conversione religiosa o riassorbimento della diversità delle culture nella cattolicità dei Lumi), ma di riconoscere l'altro attraverso l'ammissione dei torti compiuti nei suoi confronti. L'Europa è tenuta, più in generale, ad accogliere ciò che essa non è, cessando d'identificarsi con ciò che essa è». Il disprezzo della propria cultura ha un nome: oicofobia. In L'Occidente e gli altri (Vita e pensiero, 2004), Roger Scruton esamina la questione: «Nel momento in cui ci esorta a essere il più possibile propensi all'accoglienza, a non discriminare né con pensieri e parole, né con azioni le minoranze etniche, sessuali o chi si comporta diversamente da noi, la correttezza politica incoraggia la denigrazione di ciò che sentiamo essere particolarmente nostro».
Roy fornisce il quadro d'insieme ma sembra restio a tirare le somme, forse perché dovrebbe ammettere che certe risposte di destra, ad esempio sull'immigrazione, sono fondate. Il saggio, però, resta interessante. Illuminanti le pagine sulla cancel culture. Se il contesto storico viene dimenticato, viviamo in un eterno presente che rende possibile (ma profondamente stupido) giudicare gli uomini del passato con i nostri canoni morali. Insomma, i veri ignoranti sono quelli che abbattono le statue e sottolineano i classici con la matita rossa del politicamente corretto.
Un altro passaggio fondamentale è il rapporto perverso tra deculturazione e oppressione. Quando manca un accordo su quali siano i valori comuni, ogni minoranza reclama il riconoscimento pubblico e la protezione legislativa. Qui ci viene in soccorso Giovanni Sartori. In Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica (2000), il politologo si chiedeva quanto la società aperta, cioè pluralistica, potesse diventare aperta senza collassare. Le rivendicazioni di un numero crescente di minoranze (spesso astoriche e inventate di sana pianta) portano «a leggi diseguali caratterizzate da eccezioni». Il multiculturalismo conduce alla «secessione culturale» perché fa «prevalere la separazione sull'integrazione». Lo Stato liberale sottrae l'individuo all'arbitrio perché le leggi si applicano senza distinzioni. Al contrario, la moltiplicazione delle leggi «speciali» porta alla frammentazione e reintroduce l'arbitrio. Allo Stato è attribuito il dovere di intervenire e il potere enorme di discriminare.
La crisi colpisce gli intellettuali e la classe dirigente nel suo insieme,
politica inclusa. Purtroppo lo sappiamo bene. La sfida, comunque, è chiara: porre rimedio alla deculturazione senza vaneggiare di un impossibile ritorno al passato. Anche perché il passato bisognerebbe almeno conoscerlo.
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