Auto ko tra guerra e forniture. Stellantis dà lo stop in Russia

Tavares ferma la produzione a Mosca, ma è Renault a stare peggio. Rischio di blocco in Cina per i lockdown

Auto ko tra guerra e forniture. Stellantis dà lo stop in Russia

Anche il gruppo Stellantis ha deciso di sospendere la produzione di veicoli in Russia, nello stabilimento di Kaluga, il più importante polo industriale automotive del Paese. La scelta, per altro anticipata ai sindacati italiani il 31 marzo scorso dall'ad Carlos Tavares, segue quella iniziale di sospendere le importazioni e le esportazioni dalla Russia dopo l'attacco all'Ucraina. Kaluga, per Stellantis, è la base produttiva (11mila i mezzi realizzati nel 2021 a fronte di una capacità fino a 125mila unità l'anno) dei veicoli commerciali con i marchi dell'ex gruppo Psa. Ma se per Stellantis il business russo non figura tra quelli più importanti, non è così, a esempio, per Renault. Il gruppo guidato da Luca De Meo, infatti, controlla oltre il 67% di AvtoVaz e, dunque, il marchio Lada. La stessa Avtovaz, tra l'altro, in due impianti sforna vetture a marchio Renault, Nissan e Datsun. I francesi, dunque, sono molto esposti su questo mercato: AvtoVaz, in Russia, rappresenta il 22% delle vendite complessive.

L'attacco della Russia all'Ucraina, al di là degli interessi dei singoli costruttori a produrre nei due Paesi (il mercato per molti è marginale), aggiunge altri grossi problemi al settore automotive già fortemente penalizzato dalla pandemia, dalla mancanza di semiconduttori e materie prime, e dal caro energia. I territori in conflitto incidono sulle forniture di palladio per i convertitori catalitici (Mosca ha in mano il 40% del mercato), di gas neon per i semiconduttori (Kiev vale il 70% della produzione mondiale), mentre sia costruttori sia componentisti, soprattutto italiani e tedeschi, utilizzano il gas naturale russo per la fusione, la polimerizzazione delle vernici, il trattamento termico e altro.

Aspetti che fanno di questo comparto tra quelli più in difficoltà, anche perché tutti questi Tsunami (l'Ucraina, inoltre, esporta il 7% dei cablaggi) si sono abbattuti nel momento in cui i costruttori sono alle prese con una transizione ecologica che comporta mega investimenti per il previsto passaggio, dal 2035, a una mobilità unicamente elettrica.

Ecco allora l'industria dell'auto rallentare o addirittura bloccarsi come accade da mesi. L'indisponibilità di veicoli nuovi di fabbrica porta i concessionari ad allungare i tempi di consegna con i listini che si impennano e gli sconti che si azzerano. È il caso degli Usa, a esempio, dove a fine marzo 1,2 milioni di nuovi veicoli erano disponibili fisicamente nelle concessionarie, ma questa cifra rappresenta circa la metà della quantità di un anno prima e un terzo rispetto al periodo pre-pandemia. Miglioramenti non sono attesi almeno fino al 2023. L'impennata dei prezzi delle auto nell'ultimo anno è stata, peraltro, una componente importante della pressione inflazionistica sui consumatori Usa.

E la Cina? Le chiusure e i disordini a causa del piano «Covid zero» del governo portano le Case a guardare con timore a maggio, quando potrebbero dover sospendere la produzione se i fornitori di Shanghai e delle aree circostanti non potranno riprendere il lavoro. I crescenti blocchi per fermare la diffusione del Covid-19 stanno intasando autostrade e porti e chiudendo innumerevoli fabbriche.

Insomma, la crisi dell'automotive è globale e aumentano le incertezze sui tempi che l'Ue ha fissato per la transizione energetica del settore. Ritardi nelle infrastrutture e situazione generale da allarme rosso tengono l'economia con il fiato sospeso.

I componentisti, in particolare in Italia, temono ripercussioni sull'occupazione (73mila i posti in bilico nella filiera), mentre le tensioni in atto costringono il mercato a disinvestire. La francese Faurecia, a esempio, da poco scorporata da Stellantis, in 6 mesi ha perso quasi il 48% del valore in Borsa.

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