Eleganti, audaci, autarchiche e fasciste

Una mostra sulla moda femminile nel Ventennio racconta i "tipi" di donne dell'epoca

Eleganti, audaci, autarchiche e fasciste

da Venezia

Alla donna il fascismo riservò un ruolo secondario rispetto all'uomo. Angelo del focolare, soggetta al culto della maternità ed esclusa dalla politica, la donna doveva partorire e allevare figli ma poteva gestire piccole attività commerciali, per lo più legate all'economia di famiglia; ma era protagonista di un variegato attivismo sociale: era inquadrata nelle organizzazioni femminili fasciste, partecipava a riunioni e raduni, faceva propaganda attiva.

Ma che «tipo» di donna si impose durante il Ventennio? O meglio: quali «tipi» di donna?

Una risposta la offre la mostra Audaci e sportive. Le donne nelle riviste tra 1922 e 1945 aperta nelle Sale Monumentali della Biblioteca Marciana di Venezia (fino al 28 febbraio 2025), a cura di Elena Pala e Emanuela Scarpellini, che può contare su un ricchissimo nucleo di riviste provenienti da «Casa di Oriani» di Ravenna e da una collezione bresciana privata. E che come immagine-guida usa la stessa locandina che Marcello Dudovich disegnò per la Mostra del tessile e dell'abbigliamento autarchico che si svolse qui a Venezia, a Ca' Giustinian, tra l'agosto e il settembre del 1941, quando le grandi couturières del tempo - Biki, Binello, Botti, De Gaspari Zezza, Sorelle Gambino, Moretti, Moschini, Tizzoni, Vanna, Ventura... - organizzarono una grande sfilata con tessuti autarchici. Come scrive Lucio Ridenti su Bellezza nel numero di settembre del '41: «Sotto l'egida dell'Ente Tessile Italiano, tremila stabilimenti operano per conseguire la vittoria economica in questo settore, e i trecento prodotti-tipo, approvati e lanciati sul mercato il marzo scorso, sono divenuti mille. I mille tipi che a Palazzo Giustinian noi abbiamo potuto ammirare, lungo le sale marmoree, nell'atrio del Palazzo a piano terreno, nel grande salone del primo piano: tutte le grandi industrie hanno risposto all'appello, in una gara di emulazione tra la canapa e il raion, la viscosa e il fiocco, l'albene e il rodia».

Intanto qui nella Biblioteca Marciana, tra fotografie, molte inedite, giornali e periodici, capi di abbigliamento (costumi da bagno, abiti da giorno e da sera, soprabiti, uniformi...) e oggetti di vita quotidiana, lungo il percorso della mostra sfilano diverse figure femminili. C'è la donna alto borghese, più indipendente, che si informa sulle nuove tendenze e può comprare le riviste di moda, diffusissime in quel periodo (oltre quaranta testate, da Grazia a Cordelia, da Lidel a Lei - che poi diventerà Annabella -, dalla popolarissima Le Grandi Firme fino alla più moderna Bellezza che tra i collaboratori annoverava anche Gio Ponti). Si tratta però di un ristretto circuito di privilegiate che seguono le sfilate e stanno al passo dei tempi, mentre la moda per la gran parte delle italiane è fatta più prosaicamente di capi riciclati, riparazioni, adattamenti... Sono le «massaie rurali», pronte anch'esse a seguire la moda, ma quella dettata dal Regime. Che donano l'oro alla Patria e sfruttano «i tessili dell'autarchia»: le fibre della canapa e della ginestra che sostituiscono il cotone, il rayon (la seta artificiale) usato per le calze; e poi l'orbace, il lanital (realizzato con fiocchi di caseina), la cisalfa (derivata dalla cellulosa), il cafioc... Quindi c'è la donna sportiva, che incarna la «nuova italiana»: nel '28 il Regime emana la «Carta dello sport» che ufficializza l'attività agonistica femminile e rende possibile la partecipazione delle donne alle Olimpiadi, anche in discipline percepite come esclusivamente maschili: pallacanestro, scherma, sci, tennis... È un cambiamento culturale che ha una influenza sul costume e sulla moda. Le riviste di settore fanno da cassa di risonanza ai successi delle nostre atlete (nei Campionati mondiali di sci a Cortina nel '41 le italiane si piazzano molto bene) e il mensile Lo sport fascista se ne interessa fin dal primo numero, nel '28. Non solo. Nel dicembre del 1938 La Gazzetta dello Sport pubblica l'inserto «Donne negli stadi» dove si rimarca la concezione fascista dello sport femminile, considerato strumento di sanità «pur senza rinunciare alle ghirlande di bellezza».

E infine, c'è la donna in uniforme. Il fascismo si regge su un progetto pedagogico che militarizza la popolazione attraverso le divise. Anche le donne, fin da piccole, le indossano a scuola (c'è una divisa da «Piccola italiana» di una signora di Trieste che oggi ha 98 anni...), nei raduni oceanici, per strada, sui luoghi di lavoro fino agli anni di guerra, quando domina il colore nero. Ed ecco un rara divisa completa (camicia, giubba con gladi, gonna, basco con fregio) appartenuta all'ausiliaria Alda Vizzotto, classe 1920, in dotazione nel 1944 alle volontarie del Servizio Ausiliario Femminile. Sono le repubblichine che subirono le ritorsioni più violente da parte dei partigiani: furono incatramate, rasate e stuprate... E poi, certo, ci sono loro. Le partigiane. Che non indossavano uniformi regolari.

Ma - come spiegano le due curatrici - ne indossavano una «morale». «È quella delle ribelli che partecipano alla Resistenza. Esse non hanno una uniforme da ostentare. Si oppongono alla dittatura, insofferenti dell'armatura di regime in cui le ha ingabbiate il fascismo».

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