Dotato di quella rabbiosa precocità che soltanto il dolore rende esatta endocardite reumatica, dissero: faceva le elementari e di uno sguardo mesmerico, da mari del Nord, Massimo Ferretti (1935-74) inviò la plaquette che s'era stampato a sue spese, presso una tipografia di Jesi, a una decina di riviste letterarie. Doveva ancora diplomarsi, compiva vent'anni: eccelleva nei temi, restio al resto lo bocciarono in seconda. Nato a Chiaravalle nelle Marche, figlio di un geometra e di una maestra elementare, fu snobbato da quasi tutti i papaveri dell'editoria di allora. Gli rispose Pier Paolo Pasolini; di lui scrisse, entusiasta, su Officina. Ferretti si rivolgeva al «caro professore» con deferenza non priva di ferocia; Pasolini, che alternava generosità e tirannia (due monete della stessa zecca), tentò di fare di quel ceruleo marchigiano uno dei suoi adepti. Quando gli intimò di non pubblicare per Schwarz «ha stampato un pacco di inutili libri vanitosi e superficialmente sperimentali» Ferretti obbedì; quando gli propose di scrivere per la Rai, Ferretti ci si mise (senza successo). Quando, desolato dall'università a Perugia, «un labirinto di vicoli; profumi claustrali; manie cosmopolite» , Ferretti gioca all'uomo in rivolta, carpito da una rivoltante depressione, e gli chiede «tu frequenti l'ambiente del cinematografo: e io porto dentro di me un attore», Pasolini lo blocca, bacchetta il suo «maleodorante romanticismo», gli dice di tornare a studiare. «Altrimenti sei il solito mandolinista italiano, il solito poetastro rompicoglioni, dilettante e presuntuoso».
Siamo agli inizi del '57: Pasolini sta acconciando Le ceneri di Gramsci; ha da poco pubblicato Ragazzi di vita. Grazie ai suoi auspici, Ferretti pubblicherà per Garzanti, nel 1963, Allergia: pochi ne parlano, pochi lo comprano, alcuni se ne entusiasmano (Ferretti giura di aver visto, a Roma, «Sul bus 37, Giorgio Manganelli... con un libro sotto il braccio: Allergia»). Ad ogni modo, il libro è onorato con il Premio Viareggio opera prima; negli anni, s'inabissa nell'oblio, diventando per sparuti poeti che ormeggiano le proprie aspirazioni verso l'inattuale un testo di culto: all'edizione Marcos y Marcos del 1994 seguirà, nel 2019, quella definitiva, edita da Giometti & Antonello.
Aveva ragione Pasolini che leggeva il giovane Ferretti «con le lacrime agli occhi, come in sogno» : quella poesia, di un Leopardi passato sotto i torchi di Marx, reca una spaventosa innocenza, un delirare che viene dai primordi, lo stigma dell'«adolescente segnato dalla malattia e da un'inquietudine perpetua come un personaggio di Thomas Mann» (così Massimo Raffaeli). L'attacco di Polemica per un'epopea tascabile, per dire, è bellissimo: «Sono un animale ferito./ Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda./ Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l'acqua che mi crepò il cuore m'avrebbe solo bagnato».
Successe, poi, il disastro. Pasolini intendeva il magistero nelle forme di un'arte predatoria; Ferretti creatura dagli insondabili umori, da erbivoro con zanne da tigre gli sfuggì. A metà dicembre del 1957 i due il maestro e il pupillo s'incontrano, a Roma. Ferretti si ritrae, rientra a casa inquieto, inquietato: «Avevo 20 anni e t'ho fatto diventare un eroe... questa è stata la mia grande colpa». Pasolini gli risponde con un autoritratto: «io mi innamoro esclusivamente dei ragazzi sotto i vent'anni, e molto ingenui, direi quasi soltanto del popolo (ingenui dal punto di vista culturale, non erotico)... Una vita estremamente libera e dissipata non ha scalfito la mia innocenza nemmeno di un millimetro: sono veramente vergine e ragazzo, da questo punto di vista».
Da lì, il rapporto si corrode: Ferretti segue l'armata del Gruppo 63, frequenta Nanni Balestrini, si scrive con Antonio Porta; pubblica con Feltrinelli, nel 1965, Il gazzarra. Nonostante il romanzo sia esaltato, in copertina, come «Divertentissimo: un Zazie nel metrò italiano, un nuovo Pian della Tortilla», Ferretti non è Queneau né Steinbeck; la critica lo snobba e Il gazzarra come il romanzo precedente, Rodrigo, edito da Garzanti nel 1963 resta tra le retrovie dell'epoca.
Nel 1959 Ferretti si era consegnato, per l'ennesima volta, a Pasolini; gli racconta del cugino suicida, «aveva un anno più di me e non era un giovane bruciato: era disperato». Il maestro gli risponde, trafelato, tra «il trasloco» e «il Premio Strega, con le sue mille telefonate». È una risposta sbrindellata, da bovina madama ideologia in imperio: «Quello che non capisco e che ti minaccia che minaccia te, la tua poesia, il tuo equilibrio è quella voglia a essere ciò che non vuoi essere: borghese, reazionario, fascista». Ferretti lo malmena: «Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente... sei diventato vecchio o non hai più niente da dirmi?».
Da qui in poi, il carteggio che si legge in un libro violento e istruttivo edito da Giometti & Antonello: Massimo Ferretti, Lettere a Pier Paolo Pasolini e altri inediti, a cura di Massimo Raffaeli, pagg. 336, euro 36 segue l'atroce trama di un tema capitale: il maestro che diventa aguzzino; o meglio: l'angelo che si tramuta, per infatuata furia, in vampiro. Pasolini, creatura angelica, sapeva azzannare al collo.
Per un po', Ferretti lavora in Longanesi, scrive saltuariamente su Il Giorno; per Feltrinelli traduce Tra, romanzo sperimentale (mai più ripubblicato) di Christine Brooke-Rose; per Astrolabio traduce Hilda Doolittle (I segni sul muro, 1973), primordiale musa di Pound, e l'antropologa Margaret Murray (Il dio delle streghe, 1972). Nel 1968 aveva sposato, a Roma, Nilvia, una compagna del liceo: chiedendo a Pasolini di fargli da testimone gli scrisse di aver visto Teorema, «è proprio avvilente (per uno che ti ha stimato come me) assistere allo spettacolo di come degradi il tuo talento». Pasolini replica da chioccia in estro («Teorema è un bellissimo film, quasi assoluto») e accetta di fargli da testimone, «disumanamente». Le date, tuttavia, non collimano: al fianco di Ferretti ci sarà Balestrini. Qualche tempo prima, Pasolini lo aveva bollato così: «Rimbaud integrato in una società di imbecilli».
Schifato dall'odierno mondo della cultura italiana, Ferretti si isola, scrive nascostamente, guarda il calcio in tivù, gioca a scacchi. Non attende altro e nel novembre del 1974 muore, nel sonno.
Qualche mese prima aveva scritto l'ultima, allucinata lettera-invettiva a «Pierpaolo mio»: «Decaduta si insabbia nella tua religiosa mondanità la mia vispa teresa per niente sorpresa che Pasolini faccia rima soprattutto con quattrini».Era arrivato l'astio, infine, il cupo gemello della pietà. Pasolini sarebbe morto, nei modi che sappiamo, esattamente un anno dopo.
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