A Kiev il rischio di una nuova Kabul

I no sulle armi e sulla sindrome "afghana"

A Kiev il rischio di una nuova Kabul
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Ormai ogni giorno Kiev chiede di poter utilizzare gli armamenti forniti dall'Occidente per colpire i siti militari sul territorio russo da cui partono gli attacchi aerei e missilistici contro il Paese. Ormai è una preghiera quotidiana che riceve il sì della Nato e dell'Unione Europea ma resta inascoltata o si becca i «no» dalla maggior parte dei governi nazionali. Da noi poi sul «no» si è formata una sorta di unità nazionale che accomuna esecutivo, maggioranza e buona parte dell'opposizione. Francamente la classe politica del Paese avrebbe potuto o potrebbe mostrarsi unita su ben altro, non certo nella condivisione di una posizione per nulla encomiabile dal sapore pilatesco e che sostituisce il paradosso alla ratio: che senso ha, infatti, fornire degli armamenti ad un paese aggredito da una guerra se poi non può utilizzarli secondo le esigenze del campo di battaglia?

Si tratta di una tesi addirittura offensiva per Kiev perchè parte dal presupposto che si possa scatenare l'inferno al di qua del confine sulle sue case e sulle sue città mentre sul versante russo si debba garantire l'incolumità addirittura alle strutture militari da cui decollano gli aerei che ti bombardano e i missili che ti colpiscono. Peggio: involontariamente si offre agli ucraini l'idea terribile che non sia solo il nemico a considerarli carne da macello ma i loro stessi alleati.

Eppure quel «no» irrazionale resta, confezionato con le solite formule di rito che vanno dal «non siamo in guerra con la Russia» al bisogno di «favorire la trattativa», formule che dimostrano quanto la diplomazia a volte sia lontana dalla realtà. Naturalmente per salvarsi l'anima i governi del «no» aggiungono l'elenco degli armamenti e degli aiuti dati. Solo che un conto è fornire armi e soldi, un altro è mettere sul piatto morti e distruzioni. Se queste dovevano essere le condizioni dell'alleanza, sarebbe stato meglio lasciare l'Ucraina al proprio destino fin dall'inizio. Ci sarebbero stati meno lutti e una vittoria dell'autoritarismo e della prepotenza in più a danno della democrazia.

Magari è quello che l'Occidente si merita perché il dibattito sull'autorizzazione delle armi per colpire i siti militari in territorio russo è davvero folle in un momento decisivo del conflitto. Far sorgere in Putin il dubbio che l'esito della guerra non sia scontato, dimostrare all'armata rossa che il territorio russo non è un luogo sicuro per pianificare e organizzare i bombardamenti sull'Ucraina, è l'unico modo per portare il Cremlino al tavolo di quella trattativa che rifiuta o per creare le condizioni per una pace non concordata ma determinata dall'equilibrio delle forze in campo. L'unico epilogo auspicabile fin dall'inizio.

Solo che l'Occidente ormai ci ha abituato alle «grandi incompiute», si lancia in avventure per difendere gli ideali della democrazia, ma poi si ritrae lasciando alla mercé degli aggressori i popoli che ha illuso. È la «sindrome afghana». Solo che allora la ritirata fu determinata dalle troppe vittime dai colori occidentali lasciate sul campo, questa volta la carne, le vite sono tutte sul conto di un popolo geloso della propria indipendenza.

Lasciarlo in balia del nemico dopo averlo spronato, chiedergli di combattere con un braccio solo e l'altro legato per non autorizzare un uso adeguato delle armi che gli hai assicurato, finisce per trasformare inevitabilmente la tragedia in farsa.

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