Nel gennaio del 1951, convinto di fare soldi facili, nell'ebbrezza dell'esotismo, Dylan Thomas accettò di partire per l'Iran. Il viaggio durò più di un mese, dall'8 gennaio al 14 febbraio: secondo gli esperti, è lì che DT abbozza una delle sue poesie più note, Do not go gentle into that good night.
Sponsorizzato dalla Anglo-Iranian Oil Company, il tour avrebbe dovuto fornire al poeta lo spunto per «la scrittura di un film sui benefici che i petrolieri inglesi stavano apportando a un paese povero» (così Paul Ferris in: Essere un poeta e vivere di astuzia e birra, Mattioli 1885, 2008). Una fotografia testimonia la presenza ufficiale di Dylan Thomas - giacca e cravatta, volto non del tutto strampalato dall'alcol - ad Abadan, importantissima raffineria di petrolio inglese, sorta grazie a una concessione ottenuta ai primi del secolo. Il poeta ignorava di essere nel pieno di una crisi diplomatica. Proprio quell'anno, il primo ministro Mohammad Mossadeq avrebbe levato la concessione ai britannici, nazionalizzando la raffineria. L'esito fu la cosiddetta «Operazione Ajax»: i servizi britannici e americani supportano il colpo di Stato guidato dallo scià Reza Pahlavi, che nel '53 detronizza Mossadeq. Il petrolio iraniano fu poi gestito da un consorzio anglo-statunitense composto dalle cosiddette «Sette sorelle»; dal ricco pasto fu escluso Enrico Mattei.
Schifato dalla povertà - alla moglie Caitlin scrisse di «bambini rannicchiati nell'insussistenza... occhi enormi che vedono tutto e niente, pance gonfie e braccia simili a fiammiferi» -, torturato dalla noia, Dylan Thomas finì per non scrivere nulla. L'unica traccia del fantomatico viaggio in Iran - di «Persian mystery» scrisse il Times nel 2017 - è un brevissimo testo radiofonico, Persian Oil, andato in onda il 17 aprile del 1951. Il finale è folgorante: «Il petrolio è al primo posto. Il petrolio è tutto... Sull'acqua blu, che ribolle, le vele salpano dalla Bibbia. Gli arabi, eleganti, superiori al petrolio come le aquile, mantengono le loro usanze e i datteri... Alle rovine di Persepoli tutto è vanità immemorabile... I ricchi sono ricchi. Il petrolio è oleoso. I poveri aspettano».
Tornato in UK, Dylan proseguì la propria spasmodica ricerca di denaro. Thomas S. Eliot gli allungò un assegno («Ero, come sai, molto nervoso scrivendoti per chiedere aiuto; e questo specialmente in virtù delle voci recenti circa la tua ricchezza...», gli scrive lui); Marguerite Caetani pubblicò su Botteghe Oscure la poesia abbozzata in Iran. L'anno dopo Dent edita i Collected Poems, l'ultimo libro di versi pubblicato in vita.
Sul viaggio in Iran di Dylan Thomas è uscito di recente un docufilm, Pouring Water on Troubled Oil, girato con materiali vari da Nariman Massoumi. La testimonianza più bella di quella lunare avventura, tuttavia, è nelle lettere che Dylan Thomas scrive a Pearl Kazin, ora tradotte in italiano grazie a Fabrizia Sabbatini in La mia ferita è il mondo (Magog, pagg. 110, euro 18). Factotum per la rivista Harper's Bazaar, donna dal fascino maschio, amica di Truman Capote, discreta eroina del bel mondo newyorchese, Pearl aveva conosciuto Dylan Thomas nel 1950. Ne nacque una relazione - come ovvio - al vetriolo: «Ogni istante di ogni giorno non penso che a te. Ti sento, ti desidero, ti parlo in silenzio, da solo. Mia amata Pearl, amore mio... Provvedo a prenotare una stanza d'albergo?». Lei interruppe la relazione sposandosi, nel 1951, con Victor Kraft, fotografo, bisessuale, intimo di Aaron Copland; il matrimonio durò pochissimo. Nel novembre del '53, Pearl figura tra quelle che diedero l'addio a Dylan, in coma, al St Vincent's Hospital di New York.
In sostanza: Dylan trova «nauseabonda» Abadan, assisa «sul turpe e ribollente blu di questo fottuto Golfo Persico»; gli repellono i giacimenti di petrolio, «enormi mostri neri», e la vita degli operai, «giovani britannici, tutti in quieto fermento. Molti si liquefanno sotto la vampa del sole e delle loro erezioni e vengono rispediti, latranti, in Gran Bretagna». Il poeta è sedotto, soprattutto, dall'ambiguità degli sciacalli («confessano la loro indegnità a vivere in un'ignobile furia di ululati da sirena, ed esprimono la loro misera e squallida gratitudine alla notte che nasconde i loro abominevoli volti»). Il tour persiano del poeta contempla una visita a Teheran, un giro a Isfahan; gli piacque Shiraz, dove «i cani si azzuffano, le rane gongolano, i leopardi delle nevi vagabondano» e «dervisci supplicano sotto il mio letto». Un giovane iraniano, Ebrahim Golestan - già traduttore di Hemingway in Iran, sarebbe diventato un importante regista, riconosciuto dalla Mostra del cinema di Venezia - gli aveva parlato di Hafez, il grande poeta del XIV secolo, nato e morto a Shiraz, «il poeta delle inaudite parole». Dylan Thomas gli parlò di Bach, gli disse che il poeta è un semidio, opera «una nuova creazione, una seconda creazione... personale, intima, unica». Gli accademici sapranno carpire quanto il poeta ha tratto dal carteggio con Pearl per le sue creazioni.
Oltre alle lettere persiane, La mia ferita è il mondo propone altro materiale, per così dire, esotico. Esito di uno strenuo lavoro di ricerca, Fabrizia Sabbatini ha infatti raccolto gli scritti che Raffaele La Capria ha dedicato a Dylan Thomas. Si tratta di due saggi, Bibbia e Freud in Dylan Thomas e Aspetti della poesia inglese contemporanea, e della traduzione di alcune poesie (tra cui l'aurorale, notissima The force that through the green fuse drives the flower), pubblicati sulla rivista napoletana Sud nel 1946 e nel 1947. Poco più che ventenne, La Capria dimostrava aristocratica dimestichezza con la poesia inglese: citava George Barker, David Gascoigne e Louis MacNeice, tutti autori strepitosi, da noi negletti. In particolare, le sue traduzioni e i suoi studi - vilmente dimenticati dalla critica, soltanto oggi raccolti in volume - sono la prima testimonianza del successo di Dylan Thomas in Italia, all'epoca ancora una promessa. Per carpire il genio inarginabile del gallese, un bandito del linguaggio, La Capria parla di Picasso e di James Joyce: «Ad una prima lettura, molti dei suoi poems sembrano completamente oscuri, chiusi nell'ermetismo di parole completamente inventate, di scorci sintattici e di allusioni incomprensibili, tanto che per molti sono dei veri e propri enigmi impenetrabili alla ragione».
Poco dopo, Sud chiuse i battenti, La Capria si trasferì a Roma; verranno Un giorno d'impazienza, Ferito a morte, lo Strega. Insomma, un'altra vita.
Nel 1947, qualche mese dopo la pubblicazione delle traduzioni di La Capria, Dylan Thomas sbarcò in Italia. Si fermò a Firenze, fu ospite a Rio Marina, all'Elba, a casa di Luigi Berti, poeta, gran traduttore dalla lingua inglese. Il tour fu leggenda; intorno al poeta, perennemente sbronzo, danzavano Montale, Mario Luzi, Parronchi; così lo ricorda Piero Bigongiari: «Il poeta vedeva alla stessa stregua la cappella dei Pazzi e l'osteria dove, fin dal primo mattino, ordinato un fiasco di Chianti, costringeva gli amici a brindare alla vita, lume e loto di una primavera impalpabile».
Dylan Thomas non arrivò mai a Napoli, non conobbe mai La Capria. Quattro anni dopo preferì l'Iran, specie di Dioniso alla conquista della Persia.
Scrisse delle «risate ferine» delle iene, scrisse che le iene gli sembravano rospi. Il paese delle Mille e una notte annottava in oscurità petrolifere, i giacimenti avevano sostituito le sgargianti moschee - il poeta si sentiva Shahrazad.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.