Oltre i disastri naturali: così il mito della frontiera fa reagire l'America

L'eterna rincorsa alla frontiera ha creato America e americani. Così l'ambiente ostile, i terremoti, le alluvioni e gli uragani, hanno forgiato il spirito che anima gli statunitensi nel loro rapporto con lo Stato, le armi e anche l'abitare. Ma oggi dall'11 settembre 2001 alla pandemia qualcosa sembra essersi rotto

Oltre i disastri naturali: così il mito della frontiera fa reagire l'America

C’è stato un tempo in cui gli americani non esistevano. Per diversi anni, forse decenni, nel Nuovo mondo si aggirano sparuti gruppi di europei. Inglesi, francesi, spagnoli e olandesi arrivano in quel nuovo, vasto e vuoto continente e iniziano a esplorarlo. Poi la storia ha fatto il suo corso. Gli accampamenti sono diventati città, le città si sono trasformate in colonie e poi queste, per mezzo delle armi erano diventate Stati indipendenti. Nel mezzo la politica aveva trasformato quegli insediamenti in una Nazione.

Eppure, parafrasando alla lontana Massimo D’Azeglio, fatta l’America bisognava fare gli americani. Fu il contatto con quella terra selvaggia a fare degli Europei un popolo nuovo. Certo fior fior di politologi e sociologi hanno spiegato il valore calvinista dietro al successo economico e scentifico, ma c’è anche qualcosa di più elementare, profondo, che ha creato l’uomo (nuovo) americano, coi suoi pregi e difetti.

Cos'è davvero la frontiera

Per lo storico Frederick Jackson Turner il perno di tutto fu il pioniere europeo, gettato nelle giungle del nuovo continente e diventato americano mano mano che la frontiera avanzava verso ovest. Se non si parte da qui difficilmente si può capire come ragiona e come funziona lo spirito americano. La frontiera immaginata e spinta da Turner altro non è che una linea in continuo movimento verso la quale l’uomo del Nuovo mondo tende e combatte. La linea col passare del tempo è arrivata alla fine andando a sbattere contro l’Oceano Pacifico. Ma la fine della terra non ha significato la fine di quell’attitudine a volersi spingere oltre.

Fu questa intuizione che permise a John Fitzgerald Kennedy di costruire parte del suo grande messaggio comunicativo. Se è vero la sua precoce dipartita a Dallas nel novembre del 1963 rende quasi impossibile fare una valutazione della sua presidenza, dall’altra non impedisce di cogliere la raffinatezza della “Nuova frontiera” annunciata già durante la convention del 1960: “Ci troviamo oggi alle soglie di una nuova frontiera, la frontiera degli anni sessanta. Non è una frontiera che assicuri promesse, ma soltanto sfide, ricca di sconosciute occasioni, ma anche di pericoli, di incompiute speranze e di minacce”.

In quel momento i consiglieri di Kennedy furono bravi a cogliere l’essenza americana: quella di sapersi creare una nuova frontiera da inseguire all’infinto, il motore di scoperte e innovazione e allo stesso tempo la ragione di molti paradossi che attraversano il Paese, come l’estrema ricchezza e le sacche di povertà estrema.

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Un cowboy ritratto in una foto del 1887 colorata in post produzione

Paese vuoto e Stato assente

Per capire davvero la portata di questo concetto è importante andare a vedere cosa c’è dietro e dentro quella prima frontiera. Il primo passo per comprenderlo è partire da un assunto banale, cioè che gli Usa sono uno stato ancora estremamente vuoto. Gioco forza agli albori dell’Unione non c’era niente. Per anni i pionieri si sono trovati a fare i conti con una natura feroce e selvaggia. Dai lussureggianti boschi del Nord fino ai deserti aridi del Sud.

Mano a mano che il popolo andava verso Ovest si inoltrava in una terra ostile e soprattutto in solitudine. Troppo lontana l’autorità, impossibile avere a disposizione per difendersi l’esercito o anche solo forze di polizia. Questo ha avuto un effetto paradossale. Da un lato ha spinto gli americani a nascere sapendo di dover prima di tutto fare affidamento su se stessi senza che la mano del governo arrivasse a salvarli. In secondo luogo ha reso lo Stato una presenza gradita fino a un certo punto. Ancora oggi nell’America profonda la presenza di Washington, degli agenti federali non è vista di buon occhio, meglio restare autonomi, trattenere le proprie tasse e continuare a cavarsela da soli.

In uno scenario del genere è anche più facile capire il valore culturale che possono avere le armi da fuoco. Ogni volta che negli Usa si registra una sparatoria di massa si tende a leggere il fenomeno con occhi europei, magari con un forte biasimo nei confronti degli Yankee. Eppure basterebbe ricordare la storia della frontiera per capire come le armi siano un fattore culturale profondo connaturato alla storia americana. Se è vero che il secondo emendamento era pensato soprattutto in funzione anti inglese nell’ipotesi di uno scenario contro insurrezionale che minacciasse la neonata Unione, è altrettanto vero che la conquista della frontiera e delle terre selvagge non potesse avvenire senza strumenti per difendersi.

Un Paese in movimento

Oltre a un ambiente ostile i pionieri europei hanno via via imparato a confrontarsi con una terra di incendi, uragani e terremoti. I disastri naturali di proporzioni bibliche fanno da sempre da sfondo allo sviluppo americano. Più che per noi italiani o europei, per gli americani affrontare la furia dell’urgano e ricostruire dopo il passaggio è un fattore normale. Il Paese è disseminato di città e villaggi abbandonati distrutti dalla furia degli eventi.

Allo stesso tempo proprio questa instabilità ha trovato un contraltare nella capacità di movimento degli americani. Gli statunitensi sono un popolo che si sposta con una facilità disarmante. Pensiamo solo ai film e ale serie tv e a tutti quegli esempi in cui il capo famiglia cambia lavoro e porta con se tutta la famiglia, un cambiamento di vita da una città all’altra fatto di migliaia di chilometri. Nascere a Phoenix e andare a studiare a Seattle è la norma. Nascere in Connecticut e spostarsi via via verso Nord o Sud è normale, attaccati a nessun luogo se non all’America stessa.

Vedere la propria casa distrutta da un evento naturale non ha mai piegato del tutto gli americani, anzi li ha spinti a cambiare, reinventarsi e ripartire. Senza scivolare nel cliché dell’”America come terra delle opportunità”, è vero che l’approccio è molto diverso da quello cui siamo abituati noi italiani. Nessuna attesa dello Stato che ricostruisce, si molla quello che si è perso e si riparte.

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Le devastazioni dell'uragano Fatrina a New Orleans nel 2005a

Il valore della casa

Le case sono un ottimo esempio di questo. Senza dimenticare le speculazioni immobiliari e le bolle finanziarie legate ai mutui, negli Stati Uniti la casa ha un valore relativo diverso dal nostro. In America infatti solo il 64% delle case è di proprietà contro l’80% circa dell’Italia. Allo stesso tempo in molte aree il materiale d’elezione per le costruzioni resta il legno. Stando ai dati della National Association of Home Builders, il 90% delle case costruite nel 2019 erano in legno. E nemmeno la stagione violenta degli incendi sembra aver cambiato l’inerzia.

Kevin Stout, residente a Talent in California, ha raccontato alla rivista Time le sue peripezie per avere una casa in materiali diversi salvo poi gettare la spugna e tornare al legame: “In un incendio catastrofico - ha raccontato - sono sicuro che la mia casa verrà bruciata, ma ne costruirò un’altra”. Un assioma semplice ma essenziale per capire come anche il mercato immobiliare sia tarato in quella direzione. Persino le compagnie di assicurazione non agevolano l’uso di materiali alternativi, anzi spesso sono le stesse agenzie a chiedere ai proprietari di ricostruire in legno dopo un incendio per accelerare costruzione e risarcimenti. Se uniamo questo genere di rapporto con la casa e quanto abbiamo detto prima ci rendiamo conto di come sia anche facile abbandonarla, chiudere tutto e ripartire da un’altra parte.

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Un centro abitato distrutto da un incendio in California

Incubi e sicurezza

Per un cittadino americano ancora oggi, dopo oltre un secolo dalla morte della frontiera e della fine dell’epopea del Far West, il rapporto con la distruzione e la ripartenza rimane vivo. Pensiamo solo alle abitudini degli abitanti di San Francisco. Nessuno in tutta la Bay Area mette in dubbio che il “Big One” arriverà. Nessuno si illude che il grande terremoto che sconvolgerà la California lascerà dormire sogni tranquilli. Ed è per questo che in ogni casa dell’area è sempre pronto un kit per la fuga. Coperte, viveri per qualche giorno e torce elettriche per sopravvivere dopo il sisma.

Nessuno a San Francisco (e altrove) parte dal presupposto che qualcuno verrà a salvarli. Tutti devo essere autosufficienti. Molte scuole nei moduli per l'iscrizione dei figli chiedono di indicare grandezza e posti letto aggiuntivi per ospitare eventuali sfollati. E tutto questo non tanto perché le autorità federali o statali non siano in grado di soccorrere i cittadini, ma perché prima di tutto viene l’autonomia. Nella frontiera, quella terra ostile da cui siamo partiti, nessuno sarebbe venuto in soccorso, ci si aiutava da soli.

È chiaro poi che l’ultimo ventennio ha alimentato anche nuovi incubi. Gli attacchi dell’11 settembre hanno incrinato la sensazione di sicurezza degli americani e ha aperto due decenni di instabilità con le guerre infinite di Iraq e Afghanistan. Nel frattempo la società americana è cambiata, si è spaccata e polarizzata. L’assalto al Campidoglio del 6 gennaio ha aperto una porta sul fronte interno. E oggi le agenzie di intelligence sostengono sia importante focalizzarsi sul terrorismo domestico tanto quanto quello esterno.

Vista da qui, visti dall’Europa gli Stati Uniti sembrano in ritirata, sempre più isolati come se avessero perso la linea della frontiera da seguire. Intanto gli incubi post 11 settembre hanno alimentato la richiesta di maggiore protezione, esasperando la logica dell’autodifesa. È in questo contesto che emerge un gruppo sempre più grosso di americani che lavora sul fronte della sicurezza personale.

Fin dall’inizio della Guerra Fredda con l’incubo del conflitto atomico a tenere compagnia negli anni più accesi della contrapposizione, nel Paese si è diffuso un vasto interesse nei confronti del survivalismo, persone che si preparano a sopravvivere in ambienti ostili in autonomia. Poi negli ultimi anni una parte di quel movimento è confluito nei prepper, coloro che si preparano al crollo della civiltà. Uno zaino con tutto l’occorrente sempre pronto nel caso di fuga da casa. In mezzo decine di tecniche per accedere un fuoco, depurare l’acqua, creare trappole per catturare animali. Incubi che in molti casi hanno preso la forma dei bunker, rifugi antiatomici diventati vitali per molti dopo i fatti del World Trade Center.

Ora, dopo quasi due anni di pandemia ed emergenza sanitaria, il ritorno allo stato selvaggio è parso inevitabile per molti. Quello che manca stavolta è una frontiera da raggiungere e superare.

Più di qualcuno in America ma non solo sostiene che sia necessario ripensare a quel mito fondato. Magari abbandonando e diventando una nazione come le altre, o rinnovandolo. Ma da dove partire? Un nodo difficile da scegliere.

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