
Un'immagine, forse più di ogni altra, emblematizza gli effetti della Grande Guerra sulla cultura. Ce la offre Stephan Zweig, cantore della Vienna che durante la belle époque segna l'apogeo di un processo di civilizzazione per molti versi mai più eguagliato. È quella di un'orchestrina dalla quale, nell'estate del 1914, proviene una melodia soffusa e rassicurante. Alla notizia della mobilitazione generale, all'indomani dell'uccisione dell'arciduca d'Austria, l'orchestrina cessa, però, di suonare. Quella musica finisce all'improvviso e per sempre. L'umanità cade nel buco nero più profondo che la storia abbia mai prodotto. Il mondo di ieri scompare. L'universo della guerra si afferma, progressivamente, come la nuova normalità. E c'è chi inizia a pensare, allora, che la pace non tornerà mai più. Quest'opinione non è del tutto smentita dai fatti. Quando la guerra cessa, infatti, l'umanità non è più la stessa. Molto di quei terribili 4 anni di mobilitazione totale si trasferisce durevolmente alla pace. Sconvolge la concezione della vita e della morte. Modifica le leggi dell'economia. Sconquassa il conflitto politico. Penetra i processi culturali.
Censire le nuove fratture non è semplice e, soprattutto, non è lineare. Per provare a dipanare i fili, però, prima di ogni cosa, ne va considerata una sovraordinata alle altre: quella che vede contrapporsi i vecchi a i nuovi. Quanti, cioè, sono accusati di vivere con lo sguardo rivolto all'indietro e quanti pensano di essere dalla parte di chi ha compreso. Lo scontro porta con sé il rigetto di molte cose ritenute inutili sopravvivenze di un tempo passato. In economia, la possibilità di limitare lo Stato entro limiti compatibili col mercato. In politica, la democrazia, il Parlamento e il ripudio della violenza. Nella cultura, l'idea che questa possa far progredire, con moderazione, quanto conquistato con la nascita della nazione. Tra quelli che, seppure di diverso segno, spingono per il rigetto totale si registrano contatti, quando non addirittura alleanze. Innanzitutto, contro un nemico comune, bollato come restauratore del vecchio ordine. Sono connessioni che investono la politica non meno della cultura. Si creano così onde che rimandano continuamente dall'una all'altra dimensione, determinando un processo di reciproca contaminazione. Arriverà, poi, il momento della ricomposizione dei campi. E i manifesti contrapposti di Gentile e Croce, vergati giusto un secolo fa, ne sono un frutto maturo. Giungerà anche il tempo di una nuova guerra, innanzitutto civile e di dimensione continentale.
Le ricomposizioni dei campi contrapposti restano, però, imperfette. Lo spazio per intese inconfessabili non viene mai del tutto meno. E anche di queste ambiguità si sarebbe nutrita, nel tempo che divide le due guerre mondiali, l'era delle tirannie. Chi vuole ricercarne un esempio, da ultimo, può compulsare il libro che ha vinto l'ultimo Premio Aqui. È una ricerca di Maria Teresa Giusti, una tra le nostre migliori conoscitrici di storia russa, non a caso intitolato Relazioni pericolose. Vi sono ricostruiti i rapporti intercorsi tra l'Italia fascista e la Russia comunista, in particolare in ambito economico e politico. E l'argomento potrebbe essere facilmente ampliato, comprendendo la cultura e coinvolgendo le avanguardie che, all'ombra dei nuovi corsi, si sviluppano nei due Paesi. Se poi si vuol veder venire alla luce quel fiume carsico che non ha mai smesso di scorrere, ci si deve spostare verso il 1939 e l'annuncio di una nuova guerra. Basterebbe rintracciare in emeroteca una collezione della Verità (titolo che traduce dal russo Pravda): la rivista degli ex comunisti che, con Bombacci, aderiscono al fascismo. Si consultino, in particolare, i numeri del 1939 subito successivi alla firma del patto Molotov-Ribbentrop. Sono un autentico peana all'accordo. In quel documento, infatti, si ritiene di aver trovato la prova provata che la rivoluzione proletaria in Italia sarebbe stata fatta da Mussolini.
Ogni qualvolta la storia accelera, e mette il mondo di fronte a dei redde rationem, cadono, dunque, le sovrastrutture e le contrapposizioni abituali lasciando il campo sgombro per le sensibilità di fondo e le pulsioni più autentiche.
Ne riceviamo una conferma anche oggi di fronte a un mondo che sta cambiando tumultuosamente sotto i nostri occhi. La fine delle certezze consolidate e dei riferimenti tradizionali produce, infatti, una volta di più la babele dei linguaggi.
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