Quell'ombra della massoneria dietro la rete di spionaggio più grande d'Italia

Roberto Di Legami, fino al 2017 ai vertici della Polizia postale, dice la sua sulle indagini che hanno portato all'arresto dei fratelli Occhionero e dice: "Ci siamo fermati troppo presto"

Quell'ombra della massoneria dietro la rete di spionaggio più grande d'Italia

Accade spesso che nei grandi casi di cronaca avvengano ai margini del palcoscenico principale degli scontri, delle lotte intestine più o meno manifeste tra gli organi inquirenti o, in generale, tra gli appartenenti alle istituzioni. La vicenda che coinvolge i fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero non fa eccezione.

Se è vero che si tratta ad oggi di una storia pressoché dimenticata, è altrettanto vero che scavando tra le sue pieghe si trovano cose interessanti. E ora che a Perugia si sta svolgendo il processo contro l’uomo che ha disinnescato la minaccia cyber che per un decennio ha spiato le infrastrutture critiche del nostro Paese, esfiltrando una mole di dati difficilmente quantificabile – quell’Eye Pyramid che rimanda a una simbologia ben specifica -, queste cose interessanti tornano ad essere attuali e, nel silenzio assordante, reclamano attenzione.

Il 15 settembre 2022, presso il Tribunale di Perugia, si è tenuta la deposizione di Roberto Di Legami, che nel 2016 – anno in cui i fratelli Occhionero da perfetti signor nessuno diventano soggetti degni dell’attenzione dei nostri inquirenti – era direttore del servizio di Polizia postale e telecomunicazioni di Roma.

La sua è una deposizione importante sia per il ruolo ricoperto all’epoca e svolto nella vicenda, sia per quanto riferito e ricostruito a distanza di cinque anni dai fatti. E appare singolare che nessuno, fin ora, se ne sia accorto.

Una regìa dietro i cyber attacchi

Era il 2016 quando Di Legami – con alle spalle una lunga esperienza di lotta alla mafia in Sicilia e, in generale, alla grande criminalità organizzata - venne informato da Ivano Gabrielli, allora direttore del Cnaipic, del caso Occhionero: un malware aveva colpito un’infrastruttura critica italiana, l’Enav. È infatti proprio l’Enav ad aver informato il centro anticrimine per la tutela delle infrastrutture vicine allo Stato in virtù di una convenzione in atto. Ad accompagnare la denuncia sporta da Enav c’è una prima relazione di malware analysis dove si inizia a comporre un piccolo puzzle: l’attacco subito dall’Ente nazionale per l’assistenza al volo è molto simile a quello subito da Eni solamente due anni prima. Insomma, dietro questi attacchi potrebbe esserci una regìa comune.

Di Legami, al vertice di una struttura complessa e in quel periodo in fase di profonda rinnovazione, viene interpellato e tenuto al corrente delle fasi più delicate delle indagini, che procedono senza il suo diretto coinvolgimento. C’è però un momento in cui – per usare le sue stesse parole – entra “a gambe tese nella vicenda”: “È nel momento in cui fui informato che l’Occhionero [Giulio, ndr] aveva fatto parte anche con cariche importanti della massoneria”.

Il livello superiore

Il perché Di Legami fosse tanto sensibile al tema lo spiega subito dopo di fronte alla giudice Sonia Grassi e alla pm Gemma Miliani e nelle sue parole emerge uno spaccato che caratterizza la storia d’Italia almeno da sessant’anni: “Io purtroppo nel corso della mia attività lavorativa ho avuto la sfortuna di imbattermi in indagini di questo tipo, che ho portato a casa anche con discreto successo, ma ricordo che non è una cosa piacevole per l’investigatore, perché lei può immaginare in questo Paese [...] quale vespaio si solleva”.

Roberto Di Legami ricorda in aula quello che disse a Ivano Gabrielli una volta venuto a conoscenza del possibile coinvolgimento della massoneria: “[...] Glielo ribadii davanti a testimoni decine di volte [...] a me non interessa se sono solo i fratelli Occhionero, quanti dati hanno esfiltrato [...]. Una cosa io tengo, che essendo questo soggetto massone mi raccomando che l’indagine finirà quando noi abbiamo raggiunto il più alto livello, non parlo della massoneria, parlo in generale dei soggetti che stanno sopra questi due fratelli, perché senza nulla volere togliere alla competenza tecnica, giuridica anche e anche, devo dire, un certo livello di cultura dei soggetti, non credo che questa attività sia fatta in proprio”.

Frasi che – dette da un investigatore esperto – suonano inquietanti. E sempre riferendo le sue parole all’epoca, Di Legami condivide con il collega i suoi timori che, come vedremo, si riveleranno fondati: “Dobbiamo raggiungere il tetto, perché una cosa non sopporterei, che mi si venisse a dire, essendoci massoni nel mezzo, che ci siamo fermati [...] o che siamo stati così idioti da non riuscire a capire per chi lavorano [...]”.

Servizi segreti e massoneria

Quel per chi lavorano era – ed è – in effetti uno dei leit-motive di questa storia. Ancora oggi sono in molti a non credere che l’attività messa in piedi - secondo l'accusa - da Giulio e Francesca Maria Occhionero fosse inserita in un contesto a conduzione familiare. Troppe tracce portano fuori dall’Italia, negli Stati Uniti, troppi rapporti trasversali di altissimo livello, insomma, un contesto troppo ampio per due singole persone. Negli anni si è parlato di un coinvolgimento dietro le loro attività della Cia – anche se una nostra fonte sostiene con forza che sia palese lo zampino nell’Nsa -, adesso, con le parole di Roberto Di Legami, lo spettro si allarga ulteriormente e lambisce la massoneria.

Un'accelerazione improvvisa

Ad ogni modo, come appunto temuto dall’investigatore, le cose non vanno come previsto e il tutto – almeno fin ora [i fratelli Occhionero sono in attesa del processo d’Appello, ndr] - viene limitato alla loro attività. Nonostante Di Legami si sia messo personalmente in contatto con l’Fbi, attraverso l’agente di stanza a Roma Kieran Ramsey (i server degli Occhionero erano infatti dislocati in territorio americano, ndr), accade qualcosa di inaspettato: nonostante i suoi consigli di non fermarsi all’individuazione dei fratelli Occhionero, ma di risalire a chi fosse nascosto dietro la loro attività massiva di dossieraggio, tra il 2 e il 4 gennaio 2017 “c’è un’accelerazione improvvisa, proprio nei due giorni in cui vado in ferie [...]. Il 4 [gennaio, ndr] vengo informato che il magistrato [Eugenio Albamonte, ndr] ha emesso l’ordinanza di custodia [...] sono rimasto un po’ spiazzato, perché non mi aspettavo questa cosa”.

Dopodiché, con velocità record dettata dall’esigenza di fermare Giulio Occhionero che, nel frattempo e con un tempismo incredibile, aveva iniziato a cancellare materiale compromettente dai propri computer, quasi fosse a conoscenza di quanto stava per avvenire, il 9 mattina scattano gli arresti. Il 10 gennaio la storia diventa pubblica. Ma Di Legami non ha tempo di rammaricarsi per un’operazione andata diversamente da come immaginava:

“Il 9 mattina eseguiamo queste due ordinanze, il 10 il fatto viene pubblicizzato, il 10 sera il all’epoca capo della polizia Gabrielli [Franco, ndr], senza ritenere di dovermelo dire a quattr’occhi, mi rimuove dall’incarico perché ufficialmente non avrei avvisato la scala gerarchica che questo fatto [l’arresto dei fratelli Occhionero, ndr] andava a compimento [...]. Forse non ero l’uomo giusto in quel particolare momento, in quella determinata struttura”.

Scontro tra inquirenti

Una ferita ancora aperta per Roberto Di Legami, una situazione che, sempre per usare le sue parole, “ha diversi tratti di opacità”. Una storia che può essere interpretata sotto un duplice aspetto: uno scontro tutto interno alle istituzioni, in questo caso alla Polizia, o una storia determinata dalla natura delle indagini, dalla pervicacia dell’investigatore nel voler andare a fondo, nel voler arrivare “al tetto”.

Ancora oggi l’ex direttore della Polizia postale non ha dubbi: “Nessuno riuscirà a convincermi che dietro di loro (gli Occhionero, ndr) non c’è nessuno. E siccome in Italia le cose sono [...] così oscenamente semplici [...] nel 2022 è offensivo pensare che non si riesca a capire”.

Sulla defenestrazione di Di Legami ci sarebbe molto da dire. Lui stesso, nel corso dell’udienza, rispondendo alle domande dell’avvocato dei fratelli Occhionero, Stefano Parretta, ha sottolineato l’incoerenza delle ragioni che hanno portato al suo trasferimento “[...] è strano – ha affermato – [...] che la magistratura non si sia accorta che lì si chiedeva apertamente di violare il segreto istruttorio. Purtroppo in base a chi dice le cose in questo Paese si reagisce oppure no”.

Ipotesi da brivido

In conclusione, una cosa sola è certa: il bandolo della matassa di questa storia è ben lungi dall’essere sbrogliato. È vero, i tasselli ci sono. Sono tanti, ma non tutti. L’ombra degli Usa è ingombrante, ma rischia di distogliere l’attenzione. Quella della massoneria anche. E come una nostra fonte ci ha fatto notare: “Credete davvero che i nostri servizi segreti non fossero a conoscenza di un’operazione di così vasta portata?”.

Giusta osservazione, che impone due riflessioni: se i nostri servizi segreti non fossero a conoscenza di quanto da circa

dieci anni avveniva dietro gli schermi di migliaia di computer infettati dal malware Eye Pyramid, allora ci dovremmo preoccupare. Se i nostri servizi segreti ne fossero a conoscenza, allora ci dovremmo preoccupare.

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