Non si capisce niente dell'Europa di oggi se non si capisce quello che è successo all'Europa dell'Est dopo la caduta del Muro di Berlino, nel novembre del 1989. All'euforia iniziale, nei paesi del Patto di Varsavia ha fatto presto seguito una certa disillusione verso un sistema che non sembrava realizzare quanto aveva promesso in conseguenza della liberalizzazione dell'economia e dei mercati.
La giornalista e scrittrice Slavenka Drakuli, nata in Croazia, a Fiume, nel 1949, e ora residente a Stoccolma e a Zagabria, da decenni analizza con grande lucidità i cambiamenti e le traversie accaduti alle nazioni dell'ex Blocco sovietico.
In Ritorno al caffè Europa (Keller, pagg. 320, euro 18,50) fotografa la situazione proprio alla vigilia dell'invasione russa del Donbass. Così facendo, ci mostra le premesse di una sciagura in corso. Attratta dai lustrini e dalle chincaglierie dell'Occidente capitalista, l'Europa dell'Est si è trovata a fare i conti con una realtà parecchio amara: promesse di sviluppo non mantenute, crescita ridotta, disoccupazione, emigrazione. E guerre (ex Jugoslavia e ora Ucraina). Le classi politiche fanno ricorso a ulteriori promesse, non mantenibili, e al nazionalismo. Vanno in direzione contraria al tanto sbandierato spirito europeo. Si contraddicono. L'Ungheria di Orbán, pur ammessa nell'UE, si sta chiudendo a riccio. La Polonia pratica una legislazione che va molto per conto proprio rispetto alle direttive europee.
Di fatto, l'Europa va a due o tre velocità, e a nessuno dei suoi paesi piace essere rallentato. Tornano in mente le obiezioni elevate ormai decenni fa dall'antropologa Ida Magli, la quale spiegava come il processo d'integrazione fra i popoli fosse pressoché impossibile per via delle differenze linguistiche e culturali.
In Germania ha dovuto capirlo anche Angela Merkel, che ha perso il trono per via di una sua posizione ammorbidita sugli immigrati. Di fronte alle emergenze, l'Europa si sfalda, ognuno corre per sé, vedi la Brexit. O la gestione dell'epidemia di covid, quando a chiudere le frontiere ci volle il tempo di un battito di ciglia. Vivendo a Stoccolma, la Drakuli confronta le mosse dello Stato svedese rispetto a quelle, poniamo, dell'Ungheria di Orbán. Sembrano due mondi diversi, probabilmente perché lo sono. Gli uni accoglievano tutti, compresi gli emigranti economici dell'Est Europa e quelli dell'Africa (ma per la verità adesso hanno stretto le maglie, accorgendosi del costo pagato dai cittadini). Gli altri alzano muri di filo spinato senza chiedere permesso a nessuno.
Gli ucraini, trattati come russi di serie b, sono nelle condizioni che purtroppo conosciamo. A poco sono serviti la Rivoluzione arancione o i moti di piazza del 2013 a Kiev.
Con un'inchiesta iniziata un po' per caso, la Drakuli si è accorta che i prodotti alimentari distribuiti all'Est, per esempio in Slovacchia, pur se della stessa marca e con la stessa confezione, hanno ingredienti leggermente diversi dai loro omologhi occidentali. La Nutella a Vienna è più Nutella che a Bratislava, per dire. Lo yogurt a Parigi o a Milano ha più frutta che a Varsavia o a Sofia. Perché? Perché i cittadini dei paesi ex sovietici hanno pochi soldi e i prodotti che comprano a loro devono costare meno che a noi. Però la qualità è quella che è: una specie di apartheid alimentare che investe anche altri prodotti non commestibili, come i detersivi. Le autorità di controllo possono intervenire, ma certo non possono raddrizzare una situazione strutturale.
In più, il passaggio dalle statalizzazioni alle privatizzazioni si è ripercosso in modo esasperante sulle proprietà immobiliari. In Croazia per esempio, chi ha chiesto di rientrare in possesso dei propri beni, terreni o case, si è trovato di fronte a una burocrazia folle dovuta anche a un catasto in delirante confusione. Risultato: ci sono ancora lotti frazionati e non utilizzabili, abusi edilizi mai condonati. Un pasticcio. La transazione dalla proprietà sociale a quella privata non si è ancora conclusa.
Nel frattempo i popoli si spostano. Gli emigranti hanno finito per dividersi in due categorie, di tipo etnico. Se quelli di stirpe caucasica, più simili a noi, trovano più facilmente una collocazione, gli arabi o i neri sono tenuti a distanza. Nessuno li vuole. Persino le spinte secessioniste traggono forza dalla xenofobia, per esempio in Catalogna. A Varsavia di recente ci sono state imponenti marce per la difesa dell'Europa bianca, qualunque cosa sia.
Nel frattempo, mentre la sinistra benestante romana va in brodo di giuggiole per iniziative pur lodevoli come l'Orchestra di Piazza Vittorio, che interpreta Mozart in modo sincretico, i cinesi si stanno comprando Venezia. Alla faccia dell'Europa.
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