Un balletto di indiscrezioni, annunci e guerra psicologica ha accompagnato ieri più che mai le notizie sul possibile rilascio di un gruppo ristretto di ostaggi, una quindicina al massimo su circa 240, in mano ai terroristi della Striscia di Gaza dall'attacco del 7 ottobre. Il nodo è: in cambio di cosa? Una pausa umanitaria oppure uno scambio di prigionieri? Nulla si può considerare cosa fatta fino a che i rapiti non torneranno a casa, specie di fronte a un interlocutore come Hamas, che ha pianificato la cattura di centinaia di civili israeliani, alcuni con doppio passaporto, proprio per ricattare e strappare concessioni a Israele. Ma le voci di un'intesa si sono rincorse per tutta la giornata di ieri, mentre imperversano durissimi combattimenti fra esercito e islamisti a Gaza. Fra le prime a rilanciare la notizia la tv egiziana al-Qahera News, che ha riferito di una mediazione del Cairo anche in cambio dell'arrivo di nuovi aiuti umanitari nella Striscia. Altre indiscrezioni, emerse da fonti citate dall'Afp, parlano di un'intesa imminente con la mediazione del Qatar e il coordinamento Usa. I negoziati sono stati confermati anche da fonti vicine a Hamas, che riferiscono della possibilità del rilascio di circa 12 ostaggi, di cui 6 americani, in cambio di una tregua di tre giorni. La tempistica corrisponderebbe a quanto chiesto dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden nella telefonata di martedì con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. La tv egiziana parla di uno-due giorni di tregua, soluzione più sostenibile per Netanyahu, deciso a non lasciare tempo agli estremisti per riorganizzarsi e fermo sul «no» al cessate il fuoco. Il Dipartimento di Stato Usa taglia corto: «Se Hamas è interessata a rilasciare gli ostaggi, dovrebbe farlo». Ma il portavoce per la sicurezza nazionale John Kirby ammette: «Non abbiamo prove che siano vivi». Finora solo 4 rapiti sono stati rilasciati e una soldatessa liberata.
Le trattative sono in corso mentre nel nord di Gaza l'Idf continua a combattere per «sradicare» i terroristi. Per la prima volta dalla guerra del Libano del 1982, un'intera divisione di riservisti sta operando in territorio nemico e controlla l'area a nord di Gaza. Per la prima volta in decenni, i militari d'Israele hanno pregato nella storica sinagoga del rione residenziale Rimal di Gaza. «Il tempo per lasciare l'area sta finendo», ha avvertito ieri l'esercito, che ha lasciato ai palestinesi una nuova finestra per evacuare il nord. In migliaia si sono mossi verso sud, mentre Israele annunciava di aver distrutto 130 tunnel sotterranei (uno sotto una scuola) e ucciso Mohsen Abu Zina, esperto in armi e razzi. «A nord restano solo 100mila abitanti su 1 milione e 100mila», ha spiegato l'esercito. «I leader di Hamas sono morti che camminano». «La leadership interna ha perso i contatti con i suoi comandanti sul campo». Per eliminarli, i militari si avvicinano agli ospedali. Ieri erano a 700 metri da Al Shifa, considerato base di Hamas e con i raid hanno isolato al-Quds. Per i medici è impossibile curare i feriti senza carburante. E l'Onu rimarca: «Il numero di bimbi morti a Gaza (oltre 4mila) supera quello di qualunque guerra».
Ma Israele non mollerà la presa su Hamas finché non sarà annientata. E gli islamisti rilanciano: «Vogliamo uno Stato di guerra permanente», hanno detto Khalil al-Hayya e Taher El-Nounou al Nyt. E accusano l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi di complicità nell'esodo dei palestinesi.
In Cisgiordania, intanto, è in corso «una grave escalation», ammette Netanyahu, che ha convocato i
dirigenti degli insediamenti spiegando che «un gruppo di estremisti danneggia Israele». Dal Libano i razzi di Hezbollah hanno ferito due soldati. Il Mossad riferisce di aver sventato un attacco degli estremisti in Brasile.
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