Nella Seconda guerra mondiale, in Germania, «nei campi di lavoro i forzati lavoravano fino allo stremo delle forze, poi venivano sostituiti da altra manovalanza reclutata dagli spazi infiniti del regno sovietico» dice la scrittrice Natascha Wodin, i cui genitori, il padre russo e la madre ucraina, erano proprio alcuni di questi forzati. Lei infatti, che oggi vive a Berlino, è nata in un campo profughi tedesco nel '45. Una storia drammatica di fuga dal proprio Paese, ricostruita da Wodin con intensità nel romanzo Veniva da Mariupol (L'Orma editore).
Migliaia di persone sono in fuga dall'Ucraina. Ricorda il destino dei suoi genitori?
«Le similitudini sono evidenti. Non so con certezza se i miei genitori siano fuggiti dall'Ucraina o se siano stati deportati dai nazisti. In ogni caso avrebbero avuto ogni ragione di scappare dal regime di terrore di Stalin. E, dopo Stalin, ecco adesso al potere un altro dittatore folle, un criminale e un assassino che recluta i propri soldati nelle lontanissime regioni asiatiche del Paese: ragazzi ignari di tutto, quasi ancora bambini, che non sanno dove sono e contro chi combattono... E anche la popolazione civile russa soffre».
Mariupol in questo momento è assediata e isolata: che cosa prova?
«La città dove è nata mia madre è al momento quella più gravemente colpita di tutta l'Ucraina. Per me è un evento quasi mistico. Come se, anche da morta, mia madre debba di nuovo subire la massima infelicità possibile. Credo che se vedesse le immagini cui assisto ora io in televisione sarebbe contenta di non essere più in vita. Mancano luce e gas, le persone muoiono di freddo, non hanno nulla da mangiare né da bere, sono inermi, non possono fuggire e sono in preda al terrore. La città potrebbe presto assomigliare di nuovo alla Mariupol del 1944, l'anno in cui mia madre lasciò per sempre la propria casa con appena un fagotto di vestiti».
Che città è Mariupol?
«Fino alla Rivoluzione di Ottobre, a Mariupol vivevano ucraini, russi, ebrei, polacchi, greci, italiani... Vi regnava una povertà indescrivibile, ma c'erano anche persone abbienti, come il mio bisnonno italiano che aveva una villa, dove è cresciuta mia madre».
Che cosa faceva?
«Da mozzo era arrivato al grado di capitano; poi aveva finito per stabilirsi a Mariupol e fare fortuna, esportando carbone dal Donbass. All'inizio della Rivoluzione fu espropriato e cacciato con la sua famiglia, o forse ucciso».
E sua madre?
«Mia madre nacque nel 1920, quando la città era già in buona parte distrutta dalla guerra civile. Per tanto tempo Mariupol fu poco più di un grigio nulla, su cui sventolavano bandiere rosse. Poi scoppiò la Seconda guerra mondiale che la ridusse a un cumulo di macerie. Ricostruirla fu un processo assai lungo. E adesso viene rasa al suolo di nuovo».
Che rapporto ha oggi con Russia e Ucraina, le patrie dei suoi genitori?
«Negli anni della mia giovinezza ho attraversato una crisi di identità dopo l'altra, ho sempre oscillato tra la Russia e la Germania. All'epoca l'Ucraina apparteneva ancora all'Unione Sovietica, i confini erano stati cancellati: a casa abbiamo parlato sempre e solo russo, credo che mia madre l'ucraino non lo sapesse affatto. Sei mesi fa sono tornata a Mosca dopo una lunga assenza e non riuscivo a credere ai miei occhi: mi si è parata davanti una megalopoli dallo sfarzo zarista, una metropoli che turbina di continuo in una danza intorno al vitello d'oro; vanno tutti di fretta, le autostrade a sei corsie sono sempre intasate... Preferisco Berlino, che dopo questo viaggio mi è sembrata un villaggio, un borgo dai ritmi medioevali. Anche se per me la città più bella del mondo è Roma».
Scrive che nel passato c'è «un oceano di vittime dimenticate»: questo oceano si allarga ancora?
«L'umanità non impara niente. A un passo da me, a un passo da noi, la sottile pelle della civiltà si è squarciata e, subito sotto, la barbarie è di nuovo in agguato».
(Traduzione di Marco Federici Solari)
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