All'inizio di marzo del 1964 venne diffuso un appello per una «nuova repubblica» che si presentava non già come programma per un nuovo partito ma piuttosto per un «movimento di opinione pubblica» che si proponeva essenzialmente la riforma della Costituzione. L'appello era stato promosso da Randolfo Pacciardi, sul quale è stato appena pubblicato un bel lavoro biografico dal titolo Randolfo Pacciardi. Il sogno di una nuova repubblica italiana (Edizioni Efesto, pagg. 360, euro 18), scritto da un giovane storico, Emanuele Di Muro, e basato soprattutto sulla consultazione dell'archivio dell'uomo politico.
Nato nel 1899 in un piccolo paese del grossetano da una famiglia di radicati sentimenti socialisti e umanitari, Randolfo Pacciardi, fin da giovane fu affascinato dalle idee mazziniane cui rimase sempre fedele declinandole in termini di europeismo, laicità dello Stato e opposizione a ogni deriva totalitaria. Cominciò a far politica nelle file del partito repubblicano, combatté con eroismo nella Prima guerra mondiale e fu un antifascista della prima ora, guidando l'associazione di ex combattenti Italia Libera.
Alla fine del 1926 riuscì, grazie a una fuga rocambolesca, a evitare l'arresto e a rifugiarsi in Svizzera, dove giunse aiutato da un gruppo di contrabbandieri. A Lugano creò una rete di collegamento e sostegno di esuli antifascisti che passavano la frontiera grazie a passaporti falsi: uno di questi fu Alessandro Pertini. Scoppiata la guerra di Spagna, Pacciardi guidò una brigata internazionale ma entrò subito in rotta di collisione con i comunisti che «non ammettevano disobbedienza al partito» che «era per loro come domineddio».
Il suo impegno antifascista durante gli anni dell'esilio in Svizzera, in Francia, negli Usa si sviluppò con un attivismo senza soste in contatto con le maggiori personalità dell'opposizione al regime, da Carlo Rosselli ad Alberto Tarchiani a Carlo Sforza. Il rientro in Italia poté avvenire soltanto nel 1944, dopo la liberazione di Roma, e da quel momento iniziò un'altra fase della sua vita politica che lo portò a ricoprire incarichi di rilievo pubblico vicepresidente del Consiglio dei ministri nel 1947 e ministro della Difesa dal 1948 al 1953 e che lo vide, più volte, alla guida della segreteria del partito repubblicano italiano fino a quando la componente legata alla tradizione azionista e favorevole al centro-sinistra divenne maggioritaria. Pacciardi venne espulso dal Pri alla fine del 1963 per aver infranto la disciplina di partito votando contro il primo governo di centro-sinistra del quale i repubblicani facevano parte.
Erano gli anni, quelli, non soltanto delle polemiche politiche sull'apertura a sinistra e sul coinvolgimento dei socialisti nell'area di governo, ma anche quelli del dibattito sulla crisi del sistema politico, sui guasti della «partitocrazia», sulla necessità o meno di dare piena attuazione ad alcuni dettami costituzionali rimasti in mora o anche alla opportunità di rivedere o ritoccare la stessa architettura costituzionale. Emblematici di questo dibattito che toccava temi caldi come il finanziamento pubblico dei partiti o come la riforma del sistema elettorale erano gli interventi di costituzionalisti, intellettuali, politologi e giornalisti illustri come Giuseppe Maranini, Mario Vinciguerra, Mario Missiroli, Panfilo Gentile e tanti altri.
L'iniziativa di Pacciardi si inseriva in questo clima. Non è un caso che il testo del manifesto-programma dell'Unione democratica per la Nuova Repubblica fosse stato rivisto e corretto proprio da Vinciguerra e da Maranini per l'aspetto tecnico-costituzionale. Il documento denunciava la «degenerazione partitocratica» della vita pubblica italiana partendo dalla constatazione che la Carta fondamentale dello Stato, in quasi vent'anni, era stata «o non applicata, o male interpretata o praticamente calpestata da dittature occulte» e si era rivelata quindi «impari al suo mandato e alle speranze che la libertà aveva suscitato nel cuore degli italiani». Esso sottolineava, quindi, la «degenerazione del costume politico» e la «confusione di poteri» nonché la trasformazione dei partiti in «strumenti di potere» e auspicava il «ritorno alla divisione dei poteri che è sempre stata considerata requisito essenziale dei sistemi democratici». Il modello istituzionale suggerito era quello del presidenzialismo realizzato attraverso «l'elezione popolare del Capo dello Stato con un congegno elettorale» capace di consentire «la scelta del candidato migliore».
Tra i firmatari del manifesto-programma c'erano, oltre a Pacciardi, personalità eminenti della società civile, dai generali Raffaele Cadorna e Giuseppe Mancinelli all'ambasciatore Giuseppe Rossi-Longhi, da politici di orientamenti diversi (da Ivan Matteo Lombardo a Giuseppe Caronia, da Alfredo Morea a Salvatore Sanfilippo) fino a giornalisti come Tomaso Smith e Giano Accame per non parlare di Mario Vinciguerra, figura importante dell'antifascismo storico e intellettuale autore fra l'altro di una delle prime analisi interpretative del fascismo, Il fascismo visto da un solitario (1923), pubblicato per le Edizioni di Gobetti e, di lì a qualche anno, di un pamphlet dal titolo Il voto obbligatorio nel paese dei balocchi (1966) fortemente critico nei confronti di alcuni aspetti normativi della Costituzione.
Pur se il suo nome non appariva tra quelli dei firmatari del manifesto, Maranini, che aveva da poco pubblicato il volume Il tiranno senza volto (1963) di denuncia del disordine istituzionale imperante, fu il vero punto di riferimento di Pacciardi e dei suoi amici. Non è un caso che proprio lui, dalle pagine di un quotidiano, lo difendesse dall'accusa di qualunquismo e gollismo aggiungendo che la campagna ostile messa in moto da alcuni settori della stampa e della politica era un «vero peccato mortale contro la democrazia».
Adesso, a distanza di tanti decenni, si torna a parlare, ancora una volta di riforme costituzionali. Lo si fa in termini diversi da quelli di Pacciardi e, pur se si prospettano ipotesi di soluzioni alternative (per esempio il premierato o il cancellierato) al modello presidenziale da lui auspicato, rimane il fatto che le analisi dell'esponente repubblicano solo tardivamente riammesso nelle file del suo partito meritano ancora di essere prese in attenta considerazione.
Così come merita di essere approfondita e studiata la figura di un uomo, innamorato della patria e delle istituzioni, il quale spese l'intera vita lottando contro le derive totalitarie di ogni colore e auspicando la costruzione di uno Stato democratico efficiente e moderno.
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