"Ho punito mio padre con un romanzo. E la mia vita è cambiata"

Figlio del grande editor Gordon, lo scrittore si mette a nudo nel suo "In guerra per Gloria"

"Ho punito mio padre con un romanzo. E la mia vita è cambiata"

In guerra per Gloria (Rizzoli, pagg. 542, euro 21) è un romanzo duro, e commovente. Siamo nei dintorni di Boston, anni Duemila: violenza, povertà e sogni infranti. Il protagonista, Corey, è un ragazzo che cresce senza il padre Leonard e lo mitizza come fosse un genio, che adora la madre Gloria e che si occupa di lei quando le viene diagnosticata la Sla. Inizia a praticare arti marziali e inizia, anche, a scoprire quanto Leonard sia una pessima persona. Vuole arruolarsi nei Marine. Gloria avrebbe voluto fare la scrittrice, ma non ci è riuscita. Atticus Lish (nato a New York nel '71, vive in Kentucky) è cresciuto quasi senza il padre Gordon, lo mitizzava (ovvio: è l'editor più leggendario della narrativa americana, l'uomo dietro la penna di Raymond Carver e Richard Ford...), ha accudito la madre quando era malata terminale e ha scoperto quanto il padre non fosse da mitizzare affatto. Atticus Lish voleva fare lo scrittore, e il padre ha cercato di dissuaderlo. Fa arti marziali, è stato nei Marine. A differenza di Gloria, ha esordito con un romanzo di successo, Preparativi per la prossima vita (Rizzoli, 2015), che ha vinto il Pen Faulkner Award. E ora, nel secondo, In guerra per Gloria appunto, si mette molto a nudo, tornando a quel padre ingombrante.

Perché ha deciso di raccontare una storia così dura?

«La mia sensazione, a proposito della storia, era che ci fosse un problema e che dovessi tentare di risolverlo. Il cuore del problema era che cosa fare per la mia debolezza, e ho cercato di trovare una risposta».

In che modo?

«Attraverso Corey: ci provi, anche se fallirai. Vai in guerra per Ciò Che Conta. Che cos'è Ciò Che Conta? Ci sono due aspetti: uno altruista, l'amore, e uno egoista, l'ambizione».

Come funziona?

«In Rock' n' Roll Rebel, Ozzy Osborne canta: It's for me, it's for me! It's for you, it's for you!. Io scalo una montagna, per farmi un nome come artista, ma l'immagine che mi guida, mentre scalo, è quella della mia donna: voglio farcela, tornare a casa da lei e offrirle i frutti della mia fatica».

Quanto è autobiografico il romanzo?

«Molte cose le ho viste coi miei stessi occhi, altre attraverso la mia immaginazione. Ma io divido la storia, piuttosto, in cose che vedevo chiaramente e cose a me nascoste, che ho scoperto. Di qui i lunghi anni di tentativi e di errori, di ciechi inciampi. Penso a quelle cose nascoste come alla materia oscura, quella che esiste nell'universo secondo i fisici».

Scrivere è stato liberatorio?

«Sì. La mia vita è cambiata completamente scrivendo questo libro. Sono in una nuova era, adesso. Ma la libertà porta altre domande: devo esplorare nuovi luoghi».

La letteratura può aiutarci ad affrontare le sfide e le ferite della nostra vita?

«Credo di sì. Perché è parte dell'arte, e l'arte appartiene al circolo Arte/Religione/Storia: la grandiosa storia della vita umana, e l'antico sogno di scoprire come viverla».

Corey è fragile, e ferito. Quali sono i suoi problemi principali?

«Per me non è così fragile. Credo che sua madre, Gloria, sia un misto di stoicismo e sensibilità, il che è difficile, perché senti il dolore, ma torni sempre indietro a prenderne dell'altro. Alcuni pugili sono così... Il problema principale di Corey, comunque, è che un familiare molto stretto se la passa malissimo. Il che crea un secondo problema perché, per comportarsi bene con sua madre, Corey mette in stallo la sua vita, proprio nel momento in cui freme per andarsene di casa».

Come reagisce?

«La sua strategia principale, in linea col fatto che è un ragazzo pieno di energia e aggressività, è allenarsi nelle arti da combattimento e gareggiare sul ring».

Il romanzo è molto commovente, anche per l'amore fra Corey e sua madre.

«È un amore forte, intenso: Corey vuole proteggerla, e non tollera l'idea che qualcuno la maltratti. Ma, quando il gioco si fa duro, anche lui la maltratta, si spazientisce, proprio quando lei è più debole. Il suo amore non è puro abbastanza: questo è il problema. A un certo punto aspetta con ansia che muoia... Non è pronto al sacrificio totale di sé».

È troppo per lui?

«Vuole fare la sua vita, non l'infermiere. È egoista. E, quando deve proteggere Gloria, non è coraggioso abbastanza, ha paura, scappa di fronte al dolore. Ciò che più lo spaventa è la Sla, ma è sua madre ad affrontare la Sla: questo è il suo dono, l'adulto che mostra al giovane che cosa si possa sopportare. Quando qualcuno agisce nobilmente, vediamo che la nobiltà è possibile».

È una guerra, ma c'è molta debolezza.

«Non ho una visione romantica della debolezza: la vita è una lotta e abbiamo bisogno ciascuno dell'altro per essere più forti possibile. Perfino i più forti sono vulnerabili. Lo sforzo, quindi, è necessario, ed è quello che conta: finché ci provi, e ci provi con tutto te stesso, ecco, questo è nobile. E la cosa più nobile è vedere qualcuno che combatte contro qualcosa di troppo grande: perciò amiamo tanto guardare lo sport».

Il padre è crudele, falso, senza empatia: perché una figura così pessima?

«Quando ho scritto questo libro ero consumato dall'odio per mio padre, desideravo punirlo sulla carta. Da allora, lo vedo sotto una luce meno impietosa, anche perché ho scoperto di essere capace di crudeltà, debolezza e durezza come lui. Ogni passo che facciamo, nella vita, può essere l'ultimo: possiamo distruggere noi stessi e gli altri, se non stiamo attenti. Corey diventa amico di persone pericolose, e c'è un prezzo da pagare. Sì, Leonard è un personaggio grottesco, ma la vera sfida è di non diventare come lui».

Quindi la relazione fra Corey e suo padre è ispirata a quella fra lei e suo padre?

«Sì».

E che cosa pensa lui del romanzo?

«Non lo so. Sono anni che non ci parliamo, e dubito che lo rifaremo».

Corey pratica arti marziali, come lei. Che significato ha?

«Corey inizia ad allenarsi perché non vuole essere preso a botte dagli altri ragazzi e, probabilmente, perché anche lui ama picchiare. È aggressivo. E poi, certo, imparare a combattere può dare fiducia. Ma c'è anche dell'altro e, dal piano puramente atletico, Corey arriva a qualcosa di più importante, significativo e anche terrificante: alla fine non vuole combattere solo per orgoglio, vuole combattere per una grande causa - la Madre, la Bandiera, l'America, la Civiltà - e per padronanza di sé».

Corey può vincere la sua guerra?

«Certamente. Come tutti noi. La sfida è correre la nostra gara al massimo; o, almeno, prendere un Dieci per lo sforzo».

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