Sergio Romano giunse come ambasciatore a Mosca nel settembre del 1985 e vi rimase fino al marzo del 1989, quando lasciò la capitale sovietica dopo aver dato le dimissioni dalla carriera diplomatica per incomprensioni con il governo italiano dell'epoca, presieduto da Ciriaco De Mita. Durante questi quattro anni (o poco meno) poté assistere all'avvio da parte di Gorbacev della «glasnost» e della «perestrojka», al suo tentativo di porre fine alla gerontocrazia e intraprendere, senza peraltro che se ne parlasse mai esplicitamente, il cammino della modernizzazione. Ebbe modo di rendersi conto che Gorbacev aveva uno «stile», per dir così, occidentale ma una «sostanza» tutta sovietica che considerava pur sempre pilastri portanti l'economia di Stato e il partito unico, per cui, in fondo, la modernizzazione dello Stato sovietico, postulata dalla «perestrojka», avrebbe dovuto essere realizzata attraverso una sorta di ritorno a Lenin. Poté, così, assistere al «fallimento» degli obiettivi gorbaceviani e ai tentativi di riscossa della vecchia guardia brezneviana.
Qualche tempo dopo, poi, nel 1991, Romano, ormai uscito di scena dal palcoscenico della diplomazia, tornò a Mosca, questa volta in veste di giornalista, per seguire, prima, l'elezione di Boris Eltsin alla presidenza della Repubblica russa e per raccontare, poi, i giorni immediatamente successivi al fallito putsch dell'agosto 1991. Aveva un interesse e una curiosità grandissimi per la storia, ma anche per la cultura, di quei mondi e di quei territori, dei quali forse diffidava ma che lo affascinavano. Il fatto, poi, di aver potuto, in qualche misure, assistere de visu al tentativo di trasformazione delle strutture politico-istituzionali dell'Urss e infine al suo tracollo gli ha consentito di scrivere pagine che raccontano in presa diretta il tramonto, l'agonia e la fine di un impero.
Il suo recente volume Il suicidio dell'Urss (Sandro Teti Editore, pagg. 321, euro 18) è uno dei risultati di quella conoscenza diretta degli avvenimenti che portarono alla dissoluzione dell'Unione Sovietica. Raccoglie articoli e saggi di Sergio Romano scritti tra gli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta e vi sono raccontate le vicende della fase conclusiva della storia dell'Urss con uno sguardo, però, rivolto anche all'indietro, alle radici slave e populiste della tradizione politica russa, alla rivoluzione del 1917, a Stalin e allo stalinismo, al ruolo giocato dal mondo sovietico durante la guerra fredda e via dicendo. È un volume importante, un vero e proprio caleidoscopio di immagini che si compongono e si scompongono a formare quadri mossi e suggestivi della vita e della politica sovietiche e ritratti vivaci e affascinanti dei protagonisti e, infine, a proporre paragoni e parallelismi apparentemente insospettabili. Come quello, per esempio, tra Luigi XVI impegnato a festeggiare un anniversario della monarchia capetingia e Gorbacev impegnato a celebrare il 70° della Rivoluzione d'Ottobre: entrambi, memori delle pecche del passato, ma convinti e ottimisti sul futuro.
Di Gorbacev, in particolare, Romano delinea un profilo per molti aspetti problematico che, di fatto, ne ridimensiona quell'immagine, costruita soprattutto nel mondo occidentale, di «grande riformatore» che lo portò, persino, a diventare un «Nobel involontario». Seguendone le contorte evoluzioni nel labirinto delle vicende sovietiche Romano, infatti, sostiene che non esisteva un solo Gorbacev ma che ve n'erano tanti quante «le situazioni che egli dovette affrontare e le soluzioni con cui credette di poterle risolvere». Il «padre della perestrojka», insomma, aveva creduto di «poter somministrare al paese qualche dose omeopatica di democrazia» per crearsi simpatie e consenso, ma pure, resosi conto che «il volontarismo leninista non bastava a riformare l'economia», aveva finito per adottare strategie diverse. In altre parole, secondo Romano, nella personalità di Gorbacev convivevano «il riformatore e l'apparatchik, il generoso profeta di un futuro migliore e il pilota che sapeva navigare attraverso le secche e gli scogli dell'arcipelago comunista». Ma, in fondo, egli era sempre un homo sovieticus cioè una figura che viveva in un mondo che aveva pur sempre al centro il partito comunista dell'Urss, quel partito che, a detta di Romano, avrebbe potuto essere «conservato» alla maniera di Breznev o «distrutto» alla maniera di Eltsin, ma certo non «riformato» come avrebbe forse voluto Gorbacev. In questa sua «duplicità» stava la profonda debolezza di Gorbacev che spinse i suoi oppositori a liquidarlo.
In questa situazione maturò il vero e proprio «suicidio dell'Urss», la sua disgregazione. Una disgregazione diversa dai processi dissolutivi che avevano interessato nella storia moderna altri imperi e che era dovuta, in gran parte, all'antica questione delle nazionalità, ma anche, osserva Romano, alla «stanchezza» e «indifferenza» dei cittadini sovietici. Sotto questo profilo assumono un valore emblematico le immagini televisive, che non suscitarono apprezzabili reazioni fra i cittadini, di quell'incontro fra Eltsin e Gorbacev nel corso del quale il primo imponeva all'altro di firmare il decreto di scioglimento del partito comunista dell'Urss. Una firma che significava «la morte dell'Urss» perché «uno Stato-partito non poteva sopravvivere alla dissoluzione del partito».
Scritto con sobria eleganza, con suggestiva ricchezza di riferimenti storico-culturali, con fine equilibrio interpretativo, questo nuovo volume di Sergio Romano unisce alla vivacità cronachistica del racconto in diretta l'acutezza dei giudizi propri del diplomatico e dello storico.
È un volume, in conclusione, che aiuta a comprendere le modalità che portarono alla fine della «Terza guerra mondiale», la cosiddetta «Guerra fredda», ma che, al contempo, aprirono la strada a una nuova epoca di grande disordine mondiale segnato, pur esso, da nuove guerre e nuove crisi.
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