Tanti giovani in carcere. "Difficile dare strumenti di cura e reinserimento"

In grande aumento i reclusi sotto i 30 anni con gravi problemi di droga e psichiatrici

Tanti giovani in carcere. "Difficile dare strumenti di cura e reinserimento"

Il numero dei reclusi di età inferiore ai 30 anni è in costante e rapida ascesa, ma il carcere, nella maggior parte dei casi, li «ignora» o non ha a disposizione persone e strumenti per aiutarne il reinserimento e la cura. «Da 7 mesi mio figlio che ha 23 anni e soffre di disturbi psichici è a Bollate - ha raccontato all'Agi una madre - In tutto questo tempo non ha ancora visto un educatore, uno psichiatra o uno psicologo». Accanto a lei, sul palco della conferenza «Ragazzi detenuti: problemi e progetti» organizzata a Milano da «Nessuno tocchi Caino - Spes contra Spem», ha portato la sua testimonianza Stefania Mazzei, madre di Giacomo Trimarco, morto a 21 anni a San Vittore per avere inalato gas butano in quantità letale: «Faccio una distinzione tra i giovani che arrivano in carcere perché si perdono e hanno bisogno di un percorso più rieducativo e quelli che, come Giacomo, ci arrivano con una patologia psichiatrica. Per il nostro vissuto, le famiglie non esistono. È vero che tanti ragazzi non hanno la famiglia alle spalle, ma tanti ne hanno una che vorrebbe essere attiva. Noi abbiamo avuto sempre le saracinesche abbassate: i servizi per la salute mentale sono distaccati e inefficienti, a comparti stagni e così spesso, una volta usciti, i ragazzi ricadono nella rete della giustizia».

Il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, conferma l'emergenza. «Quasi la metà dei nostri 840 detenuti ha sotto i 30 anni. Questo è un problema sempre più grave, un dato in forte aumento anche perché viviamo le difficoltà che hanno fuori dal carcere. Noi accogliamo quello che la strada produce. C'è, in particolare, un'elevata concentrazione di ragazzi che hanno problemi di droga, di farmaco-dipendenza e psichiatrici. E tanti stranieri che non hanno i documenti con cui non si può nemmeno impostare un percorso. Difficile proporre modelli perché c'è un conflitto con le istituzioni: famiglia scuola e, a maggior ragione, la giustizia. Una situazione peggiorata dopo il Covid». Per questo Siciliano porta avanti da febbraio il progetto «Reparto La Chiamata» in collaborazione con lo psichiatra Juri Aparo che col suo Gruppo della Trasgressione è impegnato da anni anche con i più giovani. Non nasconde le difficoltà. «Il percorso è iniziato a febbraio, ma manca ancora un vero ingaggio: si fatica a portare le persone a cui viene richiesto un impegno. Il grande numero dei ragazzi rende tutto molto difficile perché si potenziano tra loro tutti i meccanismi negativi. Siamo comunque riusciti ad avere un finanziamento dalla Regione e due educatori di comunità che stanno provando a stabilire delle regole. L'obbiettivo è creare un posto dove si possa essere protagonisti del cambiamento a partire dalla cura, anche quella dei luoghi. Troppo presto per un bilancio, ma i primi frutti li stiamo vedendo». Sono coinvolti anche gli agenti della polizia penitenziaria. Michela Morello, comandante di San Vittore: «Il personale gestisce persone differenti e, attraverso l'esperienza, cerca di avere una modalità di approccio individuale. Molti ragazzi sono giovanissimi ed entrano in carcere subito dopo il loro arrivo in Italia e, nel giro di poco tempo, il personale deve capire chi ha di fronte e studiare la modalità adatta. La migliore per evitare il conflitto che può nascere anche da un problema generazionale. Serve capacità di ascolto per contemperare le nostre esigenze educative con le esigenze dei ragazzi».

Suor Anna Donelli, che da anni lavora a stretto contatto coi giovani detenuti, sottolinea che «hanno bisogno di benevolenza e fiducia, ma anche di fermezza. Spesso arrivano per stupidate e hanno bisogno delle regole basilari. Mi colpisce che quando li incontro dopo che sono usciti, mi chiedano di portare saluti e ringraziamenti agli agenti che hanno dato loro spiegazioni in un certo modo. Loro che fuori non hanno avuto riferimenti negli adulti, ritrovano nei poliziotti il padre che è mancato». C'è anche, secondo Antonella Calcaterra, avvocato e consigliere dell'Ordine degli Avvocati di Milano, la necessità di un dialogo maggiore tra il dentro e il fuori. «A San Vittore sono in corso diversi progetti educativi, anche dedicati ai ragazzi con problemi psichiatrici, ma durano 24 mesi: quando finiscono bisogna riproporli e riavere un rifinanziamento. Ma tale e tanto è il problema che bisogna attivare risorse fisse, con interventi non solo progettuali, da attingere della sanità regionale per detenuti con questo tipo di problemi».

Il pubblico ministero Francesco Cajani che partecipa anche al progetto «La Chiamata», sottolinea quanto sia importante il ruolo dei magistrati. «Ai giovani che ho conosciuto a San Vittore mi presento divcendo che la mia funzione costituzionale è fare bene le indagini, a volte chiedere il carcere e faccio di tutto per farlo al meglio perché credo che sia un male necessario. A furia di assolvere alla mia funzione costituzionale, però, mi sono stufato di mandare la gente in prigione. Quest'anno ho passato 5 mercoledì a Opera a leggere Delitto e castigo con i giovani studenti in Legge, familiari delle vittime della criminalità organizzata ed ex criminali.

Alcuni di questi hanno detto di essere cambiati per avere visto un magistrato, Alberto Nobili nel caso specifico, comportarsi in un certo modo. Non si può pensare che chi mette in carcere non debba essere coinvolto in quello che succede dopo».

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