Fu il Re Vittorio Emanuele III, secondo quanto racconta Giovanni Ansaldo, a indicare a Giovanni Giolitti il nome di Tommaso Tittoni come ministro degli Esteri nel 1903. Il sovrano era rimasto colpito dall'ottima impressione che Tittoni aveva fatto sul Re Edoardo VII durante la sua visita in Italia. Il sovrano inglese, succeduto alla madre Regina Vittoria, era sbarcato a Napoli il 23 aprile 1903 ed era stato accolto dal Duca degli Abruzzi. Prima di raggiungere in treno Roma dove avrebbe incontrato Vittorio Emanuele III, si era fermato diversi giorni in forma privata nella città partenopea e aveva avuto un punto di riferimento proprio in Tittoni, allora prefetto di Napoli. Fu talmente contento dell'accoglienza e dell'assistenza ricevuta da dichiarare pubblicamente: «Vorrei avere un funzionario del mio Home Office che ne sappia tanto dell'Italia come il vostro prefetto ne sa dell'Inghilterra».
Giolitti, che stava formando il suo secondo governo, aderì al suggerimento del sovrano anche perché aveva già avuto occasione di conoscere e apprezzare questo prefetto ottimo conoscitore della lingua inglese e assai british nel modo di approcciarsi e comportarsi. Così Tittoni divenne ministro degli Esteri, carica che avrebbe ricoperto fino al 1909. La nomina sorprese gli ambienti del ministero degli Esteri che vedevano in lui un «uomo nuovo» estraneo alla diplomazia, privo di esperienza nei campo della politica estera. Alle perplessità e alle critiche sulla nomina, peraltro, Giolitti non dette ascolto e non si pentì affatto della sua scelta.
All'epoca Tittoni, poco meno che cinquantenne, aveva alle spalle una solida esperienza politico-amministrativa. Nato nel 1855 da una agiata famiglia dell'agro romano, era stato eletto deputato per quattro legislature ed era poi stato nominato prefetto, prima, da di Rudinì a Perugia, poi da Zanardelli a Napoli. La sua formazione politica era avvenuta all'ombra della tradizione post-risorgimentale della Destra storica: Marco Minghetti e Quintino Sella, ai quali era stato presentato dal padre, furono per lui punti di riferimento ideale così come Emilio Visconti Venosta e Ruggero Bonghi. Era un liberale moderato che sosteneva la necessità di un disgelo nei rapporti fra Stato italiano e Santa Sede e di un superamento del non expedit. Ha osservato Giovanni Tassani nel suo ultimo volume Tommaso Tittoni. Politica estera e dibattito politico in età giolittiana (Edizioni di Storia e Letteratura, pagg. XII-304, euro 38) che egli, «spirito risorgimentale», sostenne sempre, nei discorsi e nella gestione della politica estera, «una posizione temperata, non rumorosa, aliena dagli sfoghi ed effetti retorici cui spesso cedeva l'Estrema» e fu espressione di un «liberalismo prudente e pragmatico, non dottrinario e non radicale». Per la sua formazione culturale e politica, ma anche per carattere, era un «uomo d'ordine», ma dotato di forti capacità mediatrici che gli consentivano di evitare il formarsi e l'incancrenirsi di rigide contrapposizioni politico-ideologiche.
Ciò spiega il motivo per cui Giolitti, liberale pragmatico, sia pure più di lui spostato sul versante progressista, lo abbia tenuto in considerazione e non abbia prestato udienza alle pressioni o alle critiche di quanti lo contestavano. Osserva ancora Tassani che proprio grazie a Tittoni poté essere realizzata una «connessione politica tra moderatismo lombardo e Giolitti, col rafforzamento del Governo sul suo lato destro», proprio mentre il presidente del Consiglio tentava, senza riuscirvi, di «agganciare sul lato sinistro il riformismo socialista dei Turati e Bissolati».
La scelta di Tittoni come ministro degli Esteri era giunta in un momento delicato. L'Italia era guardata dagli alleati con diffidenza o malcelato sospetto. C'era stato, sì, il quarto rinnovo della Triplice Alleanza nel 1902, ma era stato un rinnovo tiepido perché aveva pesato sulle trattative la citazione da parte del cancelliere Bülow della famosa frase con cui il generale dei gesuiti aveva stoppato le richieste papali di modifica delle costituzioni della Compagnia di Gesù: «sint ut sint aut non sint» («siano come sono oppure non siano»). E poi c'erano altri fatti che ingeneravano perplessità e preoccupazioni presso gli Imperi Centrali: da certi segnali di riavvicinamento a Francia e Gran Bretagna all'intensificarsi di manifestazioni irredentistiche.
L'esordio di Tittoni fu rassicurante: il 15 dicembre 1903, alla Camera precisò le linee direttrici della sua attività diplomatica con l'espressione: «Mantenere salda la Triplice Alleanza, mantenere e consolidare l'amicizia sincera con l'Inghilterra e con la Francia». In effetti egli portò avanti una linea che si ispirava a uno dei suoi predecessori, Emilio Visconti Venosta, secondo cui bisognava che l'Italia restasse ancorata al trattato a carattere difensivo della Triplice Alleanza con la Germania e con l'Austria Ungheria, ma al tempo stesso portasse avanti una politica di amicizia con la Francia, la Gran Bretagna e la Russia: politica sintetizzata nella celebre espressione di Visconti Venosta: «Indipendenti sempre, isolati mai».
Non era un compito facile, anche perché si trovò a dover contrastare l'opposizione dell'ambasciatore tedesco a Roma, che difendeva gli interessi della Triplice, e a contenere l'interventismo dell'ambasciatore francese a Roma, Camille Barrère, il quale sosteneva le posizioni antitripliciste e irredentiste per allontanare definitivamente Roma dai legami con Berlino e Vienna. Cionondimeno, quella portata avanti da Tittoni fu una politica cauta e prudente in contrasto con quella sviluppata da Francesco Crispi, il quale aveva pensato, velleitariamente, di poter fare una politica di potenza sotto l'ombrello della Triplice Alleanza. Giolitti, al momento della nomina di Tittoni, aveva detto che la politica estera italiana stava attraversando un momento felice perché basata su «sicure alleanze e sincere amicizie». Il suo nuovo ministro degli Esteri fece tesoro di questa osservazione e contribuì a sviluppare, come era negli auspici giolittiani, anche una politica di riavvicinamento alla Santa Sede per superare lo storico dissidio fra Stato e Chiesa.
Il liberalismo di Tittoni era, per usare una espressione tipica della politica contemporanea, spostato più «a destra», con il richiamo all'«ordine» e al rispetto dell'autorità, che prossimo a Giolitti, con il suo progetto (fallito) di stabilizzazione del sistema politico attraverso il coinvolgimento dei socialisti riformisti e, quindi, proiettato «a
sinistra». Pure, i due tipi di liberalismo erano abbastanza simili in quanto si svilupparono all'insegna di quel pragmatismo di fondo proprio del pensiero conservatore. Sotto questo profilo, Tittoni fu l'alter ego di Giolitti.
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