"Vivere in mezzo agli islamici ci fa diventare più cristiani"

Da 15 anni è vescovo in Arabia Saudita: "Non è facile coltivare la fede ma laggiù la gente trova ancora il fiato per venire a messa la sera"

"Vivere in mezzo agli islamici ci fa diventare più cristiani"

Dal 2003 monsignor Paul Hinder, frate cappuccino svizzero, è vescovo nella penisola arabica, la terra santa dell'islam. Vive ad Abu Dhabi e gira in continuazione le sue parrocchie sparse su un territorio enorme, poche e con scarsi spazi ma affollatissime di fedeli, tutti immigrati. Prova sulla sua pelle le limitazioni imposte da sceicchi ed emiri ai cristiani, è molto realista sulle difficoltà del dialogo interreligioso, ma non si nasconde, affronta i rischi, incontra tutti, tiene viva la fede di oltre due milioni di cattolici venuti da tanti Paesi nella regione araba per lavorare. E confessa che spesso sono i suoi stessi fedeli a essergli di esempio: «Per loro la Chiesa è una patria, cosa che non riscontro in altre parti del mondo».

Come decise di farsi frate? La Svizzera non sembra terra di molte vocazioni.

«Lo era quando entrai in seminario. Nel 1963 la provincia svizzera dei cappuccini contava 800 membri, era la più grande di tutto l'ordine. Ora siamo 130, e non è ancora finita».

Prete nel deserto fin da giovane.

«Sono nato in una famiglia cattolica e praticante, dei quattro fratelli abbiamo scelto in due la vita religiosa: un benedettino e un cappuccino. Mi sentivo attirato dalla liturgia, avevo una buona impressione del mio parroco e di uno zio materno che era fratello laico cappuccino. La conoscenza di queste due persone, unite al clima nella famiglia, mi aiutò a trovare questa strada. I problemi veri sono venuti dopo».

A che cosa si riferisce?

«Ho vissuto il Sessantotto alle università di Monaco e Friburgo. Tanti miei cari amici lasciarono la tonaca e la Chiesa, è stato molto duro. Però sono grato che il Signore e qualche confratello mi abbiano aiutato a restare nella strada che scelsi 56 anni fa quando entrai in noviziato».

Com'è finito vescovo in Arabia Saudita?

«Nel 1994 il capitolo generale dei cappuccini mi elesse tra i consiglieri. Avevo la responsabilità per le province di lingua tedesca e francese e dal '95 anche del Vicino Oriente: Turchia, Libano, Terrasanta e Golfo, zona affidata ai cappuccini, compreso il vicario apostolico dell'Arabia. Nel 2001 bisognava avvicendare il settantacinquenne vescovo Giovanni Gremoli. Una prima terna di nomi tornò indietro, un altro confratello rifiutò. A quel punto, erano già passati due anni, il ministro generale mi disse: Finora ti ho protetto, ma se ora qualcuno pronuncia il tuo nome, in coscienza non posso più tenerti fuori».

E lei?

«Qualche giorno dopo andai a Gerusalemme per la Settimana santa. Il Giovedì santo sono sceso al Getsemani e ho pregato anch'io: Signore, fammi passare questo calice, però sia fatta la tua volontà. Tornai con la pace nel cuore, speravo non capitasse ma nel caso ero pronto. Il 15 dicembre il cardinale Crescenzio Sepe mi chiese di diventare ausiliare di monsignor Gremoli e il 30 gennaio fui ordinato vescovo ad Abu Dhabi. Velocissimo».

Quant'è grande la sua diocesi?

«Nel 2004, quando arrivai, comprendeva Arabia Saudita, Yemen, gli Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar, Bahrain. Nel 2011 il Vaticano decise una riorganizzazione: Arabia Saudita, Bahrain e Qatar furono unite al Kuwait nel vicariato dell'Arabia settentrionale e gli altri Paesi formarono il vicariato dell'Arabia meridionale, il mio».

Quanti cattolici ci vivono?

«Non ci sono statistiche affidabili. Direi almeno due milioni e mezzo. Molti vivono in Arabia Saudita dove, com'è noto, non esistono luoghi di culto ma soltanto una pastorale interna discreta. Per il mio vicariato conto circa un milione di persone».

Parrocchie?

«Ne abbiamo 8 negli Emirati e fra poco se ne aggiungerà un'altra, 4 nell'Oman e 4 nello Yemen, che però non funzionano per colpa della guerra. Nel vicariato del Nord esiste una sola parrocchia per tutto il Qatar, enorme: ho costruito io la chiesa tra il 2007 e il 2008. In Bahrain se ne trovano 3, in Kuwait 4 ma solo 2 chiese vere».

Ovviamente tutti immigrati.

«Tutti. Sono lì a tempo, devono rinnovare il loro permesso ogni 2-3 anni, incluso il vescovo».

Anche lei?

«Ho un visto di un anno, stavolta non me l'hanno dato triennale come di solito. Spero lo faranno la prossima volta, anche se potrei avere già finito il mandato».

Che cosa fa un vescovo cattolico nel cuore dell'islam?

«Ogni anno mi reco in tutte le parrocchie, di solito le visite pastorali prendono da fine gennaio a inizio giugno. Durano dai 4 agli 8 giorni, come per esempio a Dubai: è una delle parrocchie più grandi del mondo, ha oltre 300mila fedeli, anche se non tutti possono venire in chiesa. Incontro i gruppi e le persone che vogliono parlare al vescovo. Impartisco migliaia di cresime, 800 soltanto a Dubai. Incontro tutti i preti, individualmente e in gruppo, vediamo i problemi e prendo decisioni quando necessario. Dico qualche parola in ogni messa. Dal venerdì mattina alla domenica sera parlo in più di 20 celebrazioni a migliaia di persone».

Faticoso?

«Non ho mai predicato tanto come nei Paesi del Golfo. È un lavoro enorme. In Europa ero abituato a predicare in tedesco e francese e occasionalmente in italiano, ma non in inglese che qui è la lingua franca. Ancora non mi è così facile. Poi ho l'amministrazione ordinaria del vicariato e i rapporti con i governi locali e con Roma».

È difficile vivere la fede in quei Paesi?

«Non è facile da nessuna parte. Però l'ambiente musulmano ci aiuta a essere più coscienti. Ascoltare cinque volte al giorno la chiamata alla preghiera musulmana è un richiamo anche per noi, per la nostra pratica. Vedere come loro vanno alla moschea è uno stimolo: non dobbiamo prendere la nostra fede come scontata».

L'islam dominante non vi è di ostacolo?

«La gente che ci visita dall'India o dalle Filippine dice che la propria gente è più attiva nel Golfo che in patria. Noto che la Chiesa per molti è una patria di appartenenza, in senso spirituale ma anche come luogo dove si incontrano persone di diverse etnie che credono nelle stesse cose. La partecipazione di tanti gruppi è stupenda e mi stupisce ancora dopo tutti questi anni».

È sorpreso di vedere tanta gente in chiesa?

«Quando sono tornato dopo 2 mesi di assenza a causa di un intervento chirurgico in Svizzera, ho celebrato messa la sera di un giorno feriale e la chiesa era piena, saranno state mille persone. Quando penso ad altre regioni del mondo, mi dico che lì hanno tutte le libertà ma non le usano per coltivare la fede: da noi questa gente lavora tutto il giorno e ha ancora fiato di venire a messa la sera. È qualcosa di straordinario».

Si lavora 6 giorni negli Emirati?

«A volte anche 7, soprattutto il personale domestico. È un problema sociale enorme, nonostante i progressi fatti nella protezione dei lavoratori. C'è chi li tratta in modo decente e li paga come dovrebbe, ma per molti altri i domestici sono schiavi. E non solo per i locali, ma anche per occidentali con elevate posizioni sociali».

Com'è la sua esperienza con l'islam?

«Non esiste soltanto un islam. In Arabia predominano i sunniti, nell'Oman gli ibaditi, nello Yemen si trovano sunniti e il ramo sciita degli huthi. Negli Emirati almeno l'80% dei musulmani è straniero: pakistani, indiani, indonesiani, bengladesi. Anche se si chiamano tutti fratelli tra di loro, come del resto anche noi, un musulmano pakistano non è allo stesso livello di quello emiratino: malgrado la umma, la famiglia islamica, rimangono differenze sociali e forse anche di ordine razziale».

I cattolici sono rispettati?

«Mi è capitato di essere invitato durante il ramadan in qualche famiglia per la festa della sera dopo il digiuno, è uno scambio di familiarità e amicizia che ho sempre ammirato. Poi magari esagerano perché vanno avanti quasi tutta la notte e di giorno sono stanchi e devono digiunare di nuovo. Vado come religioso, non mi nascondo, e non posso lamentarmi».

Nemmeno con le autorità?

«Non ho timore di incontrare gli ufficiali del governo e i diplomatici. È chiaro, quando si arriva al punto loro sono il top della religione. A volte qualcuno mi domanda come mai una persona può essere buona e perbene senza essere musulmano: per loro le due cose coincidono».

Si può dialogare tra fedi diverse se una delle due si considera superiore?

«Un dialogo interreligioso fatto a Riad o Abu Dhabi è diverso da quello che si fa a Roma, Vienna o New York, è evidente. Ci si esprime più liberamente altrove. Però è importante conoscere le persone, vedersi e parlarsi a faccia a faccia».

Che limitazioni subiscono i cattolici?

«La pratica religiosa può avvenire soltanto all'interno dei terreni concessi alle parrocchie. Però io non devo presentare la mia omelia al governo, a differenza dell'imam che deve recitare il testo ufficiale del ministero o presentare il suo testo in anticipo: in questo senso siamo quasi più liberi. Tuttavia, non possiamo agire fuori dei luoghi che ci sono attribuiti, nemmeno nei villaggi distanti centinaia di chilometri da una chiesa. Se qualche volta ci rechiamo nei villaggi lontani, per incontrare i nostri fedeli, lo facciamo a nostro rischio. Ma è impressionante vedere la gente all'interno, isolata ma felice anche solo di vedere il vescovo che non ha paura di recarsi da loro».

Conversioni dall'islam?

«Naturalmente no, è tabù. I cristiani possono diventare musulmani, sono i benvenuti, ma a noi è vietato convertire».

Potete costruire liberamente le chiese?

«Non è facile ottenere i permessi. Ci vuole molta pazienza e anche insistenza. Siamo obbligati a non esporre nessun segno esplicitamente cristiano all'esterno, nulla di visibile da fuori: croci, campanili, statue. I divieti sono esplicitati nei contratti di concessione dei terreni».

A chi appartengono i terreni?

«Ci vengono concessi per lo più con una forma di comodato gratuito. La costruzione è a carico nostro. E se un giorno l'emiro decide che in quel posto sarebbe meglio fare altro, dobbiamo sloggiare».

È capitato?

«Sì, ad Abu Dhabi negli anni '80. La prima chiesa si trovava nel quartiere turistico e degli affari e ci proposero di trasferirla nel centro dell'isola. Per noi è stata una benedizione: là era più bello ma la nostra gente vive altrove e ora siamo in un posto migliore. Potrebbe capitare di nuovo».

Quindi per lei l'islam ha una certa tolleranza con i cristiani.

«Ad Abu Dhabi sì. C'è pure un ministro per la tolleranza e uno per la felicità, perché la gente dev'essere felice».

Anche i cattolici?

«Dovremmo esserlo per natura».

Avete spazi sufficienti?

«In realtà ce ne vorrebbero di più ampi, le strutture parrocchiali sono troppo piccole e non c'è molto posto per il catechismo, le attività pastorali e anche la liturgia. Ad Abu Dhabi due chiese sorgono sullo stesso terreno, a pochi metri di distanza: la cattedrale di san Giuseppe e la chiesa di santa Teresa. Questo ci consente maggiore flessibilità: possiamo iniziare una messa anche se un'altra è ancora in corso».

Quante messe si celebrano?

«In inglese 3 al giorno dal lunedì al giovedì, 6 il venerdì, 3 il sabato e 8 la domenica. Chi lavora può venire a messa soltanto il venerdì, giorno festivo dei musulmani. Poi ne diciamo altre in 15 lingue diverse: i miei preti sono frati cappuccini provenienti da 20 province diverse del mondo».

È contento del suo percorso?

«È stato duro all'inizio. Ricordo la prima volta che venni negli Emirati come visitatore, quando non c'era ancora il rischio di diventare vescovo. Mi dicevo: mai potrei sopravvivere da queste parti. È andata diversamente. Ma ho detto sì e ora sono grato. Non avrei mai avuto una vita così ricca, interessante, in un punto strategico per la politica internazionale e per la religione.

Celebro messa per numerosi ambasciatori cattolici, che vengono in chiesa mescolandosi tra i fedeli. E una volta anche per un presidente del Consiglio italiano, Romano Prodi: alle 8 venne nella cappella della casa episcopale, poi prendemmo il caffè. In un convento svizzero non mi sarebbe mai successo».

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