Il successo fu roboante. Cuore uscì il 15 ottobre del 1886; a fine anno aveva già collezionato «41 edizioni e 18 domande di traduzioni» (così Mimì Mosso). L'editore Treves spedì a Edmondo De Amicis «un vaglia di ventimila lire»: «è la prima volta che un letterato italiano vende in soli due mesi e mezzo un successo sì grande dell'opera sua». Come sappiamo, fu soltanto l'inizio. Vincendo l'acredine dei critici rincretiniti, Cuore si dimostrò uno dei romanzi più belli e più venduti della letteratura italiana: ancora oggi la sapida facilità di De Amicis fa gongolare chi lo stampa.
Cuore come il suo gemello a tratti opposto, Pinocchio dimostra che la grande letteratura è sempre (così il sottotitolo del libro) «per ragazzi». Nel mondo anglofono tale asserzione è un dogma. Basti pensare a Lewis Carroll e a Robert Louis Stevenson, a Rudyard Kipling, a Mark Twain e a C. S. Lewis. In tempi più recenti, in vagabondaggio geografico, ricordiamo Selma Lagerlöf e Michael Ende, Saint-Exupéry, Truman Capote (il magnetico L'arpa d'erba) e J. D. Salinger. Se dovessi giocare all'eccesso, mi piacerebbe vedere Enrico Bottini sulla chiatta manovrata dal protagonista de La linea d'ombra. Ma ogni cuore ha la sua tenebra ed Edmondo De Amicis, nonostante i tanti tentativi di imitazione, non riuscì più a replicare quel successo. Scrisse, recisamente, altro, De Amicis. Alle atmosfere scolastiche di Cuore, De Amicis tornò in un bozzetto pubblicato su L'Illustrazione Italiana il 21 dicembre del 1889. Riappaiono qui alcuni personaggi di Cuore Alberto Votini, Vico Nelli, Derossi, Garrone , in contesto diverso: i ragazzi sono cresciuti, non frequentano più la terza elementare. Il racconto s'intitola Seconda ginnasio, è stato ripescato dall'oblio da Alberto Brambilla il quale, in un saggio di romanzesca efficacia, ci spiega perché potremmo definirlo «Un seguito di Cuore» (stampa il tutto De Piante, pagg. 72, euro 20).
Il contesto del racconto è spassoso. De Amicis ci mostra il professor Carati all'opera: occhialuto, dalle «pupille piccolissime e nerissime», interroga in latino appioppando uno zero a Votini e un tre ad Annina Rosetti, «vestita a lutto, piccolina, con un viso gentile e timido». Strepitose alcune acuminate battute, tra Amarcord e Charles Dickens; sul prof Carati, ad esempio: «Diceva bocciare e bocciato con tante ci che ai paurosi degli esami metteva un brivido per le ossa».
Il genio di De Amicis sta nel plasmare, con rudi tratti, l'anima di un personaggio, lì per lì, d'improvviso. Così, Maria Bianchi ha i «lineamenti regolari di santina di frate Angelico, sui quali non si vedeva mai l'espressione d'uno sforzo intellettuale»; Derossi è «biondo, bello e riboccante di vita»; Morelli è «affetto d'una malattia particolare, tutta scolastica, che i medici hanno ancora da definire: un terrore degli esami, degli studi, dei professori, di tutto quanto avesse relazione con la scuola».
De Amicis non descrive, accarezza i suoi piccoli protagonisti, grati alla
loro brutale vitalità. Il racconto si legge in un sorso, lascia il sorriso stampato in faccia. Con molta umiltà, è bene che gli scrittori di oggi tornino al malmenato De Amicis per imparare come si scrive per farsi leggere.
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