Il Marocco guida la "decolonizzazione" del calcio africano

Il Mondiale consacra la "decolonizzazione" del calcio d'Africa. Il caso del Marocco è emblematico: i figli della diaspora vogliono giocare per la nazionale di Rabat

Il Marocco guida la "decolonizzazione" del calcio africano

L'Africa agli africani: non è uno slogan terzomondista di Thomas Sankara, che pure approverebbe quanto sta accadendo in Qatar, piuttosto l'attestazione della definitiva "decolonizzazione" del calcio africano. Cinque allenatori su cinque delle nazionali africane della Coppa del Mondo sono nati nel continente di frontiera per eccellenza. Compreso quello del Marocco rivelazione del torneo. La cui storia di "africanizzazione" è paradossalmente la più recente. Poco prima dell'inizio del Mondiale, arriva un colpo di scena da Rabat: la federazione calcistica marocchina rescinde il contratto con il commissario tecnico Vahid Halilhodzic, artefice della qualificazione della nazionale africana a Qatar 2022. Al suo posto viene chiamato Walid Regragui, un ex calciatore nato in Francia ma formatosi come allenatore nel suo Paese di origine e in grado di riportare nello scorso mese di maggio la Champions League africana proprio in Marocco, trionfando con il Wydad Casablanca.

Regragui è l'eroe del momento. Il 6 dicembre 2022, con la vittoria ai rigori sulla Spagna, regala al Marocco il suo primo quarto di finale ai mondiali. Ma è anche uno dei volti che sta dando all'Africa un'inaspettata decolonizzazione calcistica. Cinque nazionali africane sono andate in Qatar e tutte hanno in panchina allenatori africani. Un fatto inedito per un continente le cui squadre più iconiche nella rassegna iridata sono state sempre guidate da commissari tecnici stranieri, soprattutto europei.

Il Camerun di Italia '90, prima squadra africana a raggiungere i quarti di finale, era allenato dal russo Valerij Nepomnjascij. Il Senegal capace di sconfiggere la Francia campione del mondo nel 2002 era stato costruito dal francese Bruno Metsu, mentre il Ghana che in Sudafrica nel 2010 ha sfiorato le semifinali aveva in panchina il serbo Milovan Rajevac.

Cinque allenatori hanno riscritto la storia calcistica dell'Africa

Se Regragui è l'eroe del Marocco, in Senegal le attenzioni sono tutte per Aliou Cissé. È forse da lui e dalla federcalcio senegalese che parte una tanto repentina quanto inaspettata inversione di tendenza del calcio africano. Cissé è già da anni una leggenda del calcio del suo Paese. Fa parte della squadra che nel 2002, agli ordini di Metsu, arriva ai quarti e si attesta come rivelazione del torneo.

Dieci anni dopo viene chiamato a dirigere la nazionale, ma è solo un incarico ad interim. È nel 2015 che Cissé prende definitivamente in mano la squadra. Non sono anni facili per il calcio senegalese, incapace di replicare i risultati del decennio precedente. Ci sono però alcuni nomi importanti da cui ripartire. C'è ad esempio l'attaccante Sadio Mané, così come il difensore Kalidou Koulibaly. A Cissé viene concesso tempo e pazienza per poter ricostruire un gruppo competitivo. Nel 2018 arriva la qualificazione a Russia 2018, dove gli ottavi sfuggono solo per la differenza di cartellini gialli favorevole al Giappone (primo e finora unico caso nella storia). Poi la nazionale riesce a giocarsi il titolo di campione d'Africa l'anno successivo in Egitto, perdendo però con l'Algeria. Il riscatto definitivo arriva nello scorso febbraio, quando in Camerun nella finalissima supera l'Egitto ai rigori e ottiene il primo storico alloro continentale.

La vittoria del Senegal è forse uno spartiacque nel calcio africano. Ci sono molte nazionali che nella rassegna giocata a febbraio deludono amaramente. A partire dal Camerun padrone di casa, chiamato a vincere il trofeo ma non in grado di esprimere un buon gioco. A deludere è anche il Ghana, squadra lontana dalla generazione d'oro di inizio XXI secolo ma da cui non ci si aspetta un'uscita di scena dalla coppa continentale con soltanto un punto nel girone.

Le due federazioni allora decidono di guardare al modello Senegal: via i precedenti allenatori, spazio alle storiche bandiere delle rispettive nazionali. Il Camerun non rinnova il contratto al portoghese Toni Conceiçao e chiama Rigobert Song, protagonista con i “leoni indomabili” a cavallo tra gli anni '90 e 2000. Per lui anche una fugace apparizione in Serie A con la Salernitana, poi Liverpool e West Ham nella sua carriera, assieme ad alcune esperienze in Turchia. Vince per due volte consecutive la Coppa d'Africa, nel 2000 e nel 2002, e i suoi tanti anni in Europa lo rendono tra i camerunensi più conosciuti e apprezzati a livello calcistico. Song guida il Camerun ai playoff per andare in Qatar e riesce il 29 marzo scorso a qualificare la nazionale superando l'Algeria.

Il Ghana invece licenzia l'allenatore dei quarti di finale di Sudafrica 2010, Milovan Rajevac, e decide di affidare la direzione tecnica a Otto Addo. Anche lui storica presenza tra le fila della sua nazionale, con riferimento soprattutto alla partecipazione a Germania 2006, primo mondiale con il Ghana al via e capace di raggiungere poi gli ottavi di finale. Addo è un “allenatore di ritorno”: nato e vissuto in Germania, decide però di vestire la maglia del suo Paese di origine e, a distanza di 16 anni, di traghettarlo ai mondiali in veste di commissario tecnico. Il suo è un incarico temporaneo, chiuso subito dopo l'eliminazione ai gironi in Qatar, a cui il Ghana arriva dopo il doppio confronto con la Nigeria ai play off. L'esperienza di Addo però rappresenta una svolta nella gestione del calcio nel Paese africano.

La Coppa d'Africa risulta fatale anche per la panchina tunisina, ma in quel caso si tratta di un passaggio di testimone tutto interno al calcio del Paese nordafricano. Via Mondher Kebaier, spazio a Jalel Kadri, tunisino la cui carriera calcistica si svolge interamente nel mondo arabo e che porta la nazionale in Qatar dopo la vittoria sul Mali.

Cinque allenatori africani quindi in cinque squadre africane. E non è forse un caso che proprio in questo mondiale per la prima volta il continente può vantare almeno due formazioni, il Senegal di Cissé e il Marocco, nella fase ad eliminazione diretta. Con il Marocco adesso punta di diamante capace di alimentare il sogno africano nel deserto qatariota. E fonte di un'altra forma di "decolonizzazione" calcistica: l'attrazione della diaspora.

La nazionale del Marocco, raduno della diaspora

La decolonizzazione passa anche per il "soft power". Una nazione si libera dalle catene della dipendenza coloniale e comincia a essere attrattiva sul profilo identitario. Questo vale per l'arrembante e giovane Marocco targato Regragui. Identitario e cosmopolita al tempo stesso, senza alcuna contraddizione: la squadra del Marocco è la squadra dei figli della diaspora. A fronte di un Paese di 37 milioni di abitanti ci sono circa 5 milioni di marocchini all'estero, quasi un settimo del totale degli abitanti. La maggior parte di questi vive in Europa occidentale, principalmente in Francia (circa 1.500 000), Spagna (circa 750.000), Belgio (circa 500.000), Italia (circa 450.000), Paesi Bassi (circa 400.000) e Germania (circa 140.000), oltre che in Israele e Canada.

La nazionale del Marocco ha saputo operare l'attrazione necessaria a far tornare coi colori di casa i figli di questa diaspora. Se nella vecchia guardia, per fare un esempio, i figli delle nazioni degli ex imperi coloniali nati nelle antiche colonie anelavano a giocare per la compagine europea più quotata (Clarence Seedorf dal Suriname all'Olanda, Patrick Vieira dal Senegal alla Francia, per fare due esempi), oggi succede l'opposto. E così un fuoriclasse del calibro di Achraf Hakimi, nato a Madrid e passato dalla camiseta blanca del Real alle maglie di Borussia Dortmund, Inter e Paris Saint Germain, sceglie legittimamente e convintamente il Marocco. Al suo fianco, il portiere-eroe degli ottavi, Bounou, nato a Montreal, Canada. Il roccioso difensore Noussair Mazraoui e l'estroso centrocampista offensivo Hakim Ziyech, in forza rispettivamente a Bayern Monaco e Chelsea, sono nati in Olanda.

E c'è spazio anche per l'Italia. Parla un florido accento marchigiano Walid Cheddira, giovane talento del Bari nato a Loreto, in provincia di Macerata, all'ombra di quel santuario e di quella Casa Santa che molto dicono dei rapporti tra Italia e Oriente mediati dal Mediterraneo. Un rapporto che ha portato in passato i nostri destini a incrociarsi con quelli del Marocco e del Maghreb, molto prima che la florida diaspora proveniente da Casablanca e dintorni si ramificasse nel Paese. Cheddira, classe 1998, ha giocato stagioni tra Eccellenza e D nel maceratese dividendosi tra il Loreto e la Sangiustese. Ha poi peregrinato tra Arezzo, Lecco e Mantova in Serie C prima di consacrarsi a Bari: 6 gol nella vittoriosa Serie C 2021-2022, ben 9 nel primo spezzone dell'attuale Serie B. A settembre l'esordio con la nazionale del Marocco per questo giovane prospetto che ha giocato anche l'ottavo con la Spagna.

Mutatis mutandis, non possiamo non sottolineare che il periodo d'oro del calcio italiano iniziò quando, tra gli Anni Venti e Trenta, gli "oriundi", i figli della diaspora, iniziarono a giocare con la Nazionale azzurra e i club del nostro Paese. Da Raimundo Orsi a Enrique Guaita, protagonisti del Mondiale 1934, la storia degli oriundi è proseguita con nomi di peso come Omar Sivori, José Altafini e Eddie Firmani per arrivare ai giorni nostri con Mauro German Camoranesi, campione del Mondo nel 2006, e i campioni d'Europa del 2021 Jorginho ed Emerson Palmieri.

Ebbene i legami di molti di questi campioni, specie i più recenti, con la madrepatria erano prima dell'affermazione calcistica molto meno ombelicari di quelli dei figli di prima generazione dell'emigrazione marocchina. Ora tornati a vestire i colori rosso acceso della nazionale di casa per decolonizzare il calcio nel Paese. E contribuire a restituire l'Africa del pallone agli africani. Ovunque essi siano nati.

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