Nell'aprile 1945 Berlino è una città fantasma. La capitale del Reich millenario è ridotta un cumolo di macerie. I sovietici sono alle porte. Le riversano addosso, quotidianamente, un inferno di fuoco. Hitler ha deciso di non arrendersi. Asserragliato nel bunker escogita piani difensivi irreali. Accanto a lui c'è Joseph Paul Goebbels. Il Ministro, un tempo della propaganda, ora della «guerra totale», è ottimista. Incita i berlinesi a resistere. Rievoca Sparta e Re Leonida. Ricorda che la guerra tutto sommato è bene godersela: il dopoguerra sovietico sarà infernale.
Agli uomini in armi rammenta l'obbligo di difendere madri, sorelle, mogli, fidanzate. Goebbels continua, anche nel disastro totale, ad occuparsi della propaganda cinematografica. Ha fatto paracadutare a La Rochelle, porto francese ancora occupato dai tedeschi, le bobine del film Kolberg (La cittadella degli eroi, 1945) del «principe» dei registi nazionalsocialisti, Veit Harlan. Nel kolossal a colori il popolo si arma per difendersi da Napoleone. Kolberg, «affresco dal «budget illimitato», mescola con estrema abilità guerra nazionale, storia d'amore e accadimenti storici. Nel 1806 le armate napoleoniche assediano la città fortificata di Kolberg (oggi territorio polacco), ultimo ostacolo alla completa vittoria dei francesi sui prussiani. La storia patria tedesca non aveva mai dato grande risonanza all'avvenimento, anche perché alla fine dell'assedio, nonostante l'eroica difesa, Napoleone aveva piegato la resistenza. Nel film voluto da Goebbels, naturalmente, la conquista francese viene occultata. Piccola ma necessaria falsificazione. In Kolberg il borgomastro della città Nettelbeck si erge a difensore supremo, interpretando il sentimento popolare. Si doveva scegliere tra capitolare (come vogliono i militari) o mobilitare la popolazione civile (come vuole Nettelbeck). Si decide di combattere. Per la realizzazione di Kolberg furono impiegati 187mila soldati. Una massa ordinata di cittadini, imponente e festante, è mostrata in apertura del film. È quanto avrebbe sognato Goebbels (novello Nettelbeck) per la finale battaglia di Berlino accerchiata (dove il film venne proiettato il 30 gennaio 1945, solo in due sale). Harlan mette in scena, in maniera efficace, un vero e proprio «manifesto» del pensiero di Goebbels nella fase conclusiva della guerra. Il Ministro diffida dei militari e ha deciso di richiamare costantemente la popolazione all'estremo sacrificio. A questo passaggio drammatico Peter Longerich ha dedicato un libro magnifico: Goebbels e la «guerra totale». Il discorso al Palazzo dello Sport del 1943 (Einaudi, pagine 192, euro 23). Lo storico tedesco è uno dei maggiori studiosi del Terzo Reich. Ha pubblicato la migliore biografia di Goebbels (Einaudi, 2016), un'ottima biografia di Hitler (Utet, 2020) e un saggio di importante rilievo sulla conferenza di Wannsee (20 gennaio 1942), dove venne messa nero su bianco la «soluzione finale della questione ebraica europea» (Einaudi, 2018).
Goebbels, nel precipitare degli eventi, si era appropriato di un'idea del generale Erich Ludendorff, eroico comandante supremo della Grande Guerra e militante nazionalsocialista della prima ora: la «guerra totale». Nella guerra moderna per Ludendorff era diventata imprescindibile la coesione tra esercito e popolo. Era questo il suo concetto di «guerra totale»: una battaglia per la vita, dove si può soltanto vincere o perdere tutto. La «guerra totale» viene evocata da Goebbels in un infiammato discorso tenuto allo Sportpalast di Berlino il 18 febbraio 1943, davanti a 20mila presenti. Tre aspetti vengono evidenziati da Longerich. La macchina propagandistica è perfetta: stampa, radiofonia e cinegiornali trasformano l'incontro in un evento di massa. Le capacità persuasive di Goebbels sono superlative. Il clima di suggestione dei presenti è a livelli inimmaginabili. Goebbels è categorico: «Se fino ad ora abbiamo parlato più volte della guerra di popolo, ora siamo decisi ad attuarla realmente. Il totale sforzo bellico significa rinuncia a tutte le comode abitudini borghesi».
Il fronte sovietico sta crollando, e occorre motivare la popolazione, smarrita per la dolorosa quanto inaspettata sconfitta di Stalingrado. La propaganda aveva incessantemente parlato di vittoria. Poi, di colpo, l'annuncio della disfatta, catastrofica. Goebbels sa quali corde deve toccare nell'arena gremita dello Sportpalst. «Stalingrado è stata ed è il grido d'allarme della nazione tedesca!». Il bolscevismo minaccia non solo la Germania ma l'Europa intera, e il nazionalsocialismo è la sola diga all'internazionale ebraica. La situazione richiede al popolo intero uno sforzo immenso: la «guerra totale», la guerra «più radicale e anche la più breve». Goebbels ricorda l'imperatore Federico II: sette anni di combattimenti, cinque milioni di prussiani contro novanta milioni di europei, il baratro della disfatta e, infine, la vittoria.
La conclusione del discorso, molte volte interrotto da applausi e grida di approvazione, è un capolavoro di retorica. Goebbels si rivolge ai presenti sottoponendogli un «contratto morale», riassunto in dieci domande. Il primo quesito: credete nella vittoria? «Ja» («Sì») è la risposta generale. Prosegue: seguite Hitler sino alla fine; lavorate quattordici ore al giorno; abbiate fiducia nel führer; siate fedeli alla causa nazionalsocialista; difendete il fronte orientale; utilizzate le donne nel lavoro quotidiano; colpite i nemici interni; preparatevi a sopportare immani sacrifici. Ad ogni domanda segue un tripudio di accettazioni. Infine, la domanda delle domande: «Volete la guerra totale? La volete voi, se necessario, più radicale di quanto possiamo oggi immaginare?». Il consenso è irrefrenabile.
Il Ministro della «guerra totale» con questo discorso è stato in grado di condurre al delirio i presenti, con abilità verbale e gestuale prese in prestito dal Faust di Goethe. Hitler, ci ricorda Longerich, credeva ciecamente nella vittoria. Goebbels non ci credeva affatto. Stalingrado era caduta. In Africa la sconfitta era imminente. I bombardamenti della città tedesche un tormento quotidiano. Imperativa diventata la copertura della realtà con l'illusione. Raccolta l'adesione il «novello Mephisto» concludeva: «Ora popolo insorgi! Tempesta scatenati!». Parole, sciagurate parole. Destinate a incitare all'insensata resistenza, sin alla fine.
Nel diario del 19 marzo 1945 Goebbels così commenta la notizia: «Siamo stati obbligati ad abbandonare Kolberg. Dopo essere stata difesa con un eroismo straordinario, la città ha dovuto arrendersi. Sto arrangiandomi affinché la caduta di Kolberg non appaia nei comunicati del Comando supremo della Wehrmacht.
Non abbiamo bisogno di questo per il momento, considerando le forti conseguenze psicologiche che si potrebbero avere per il film su Kolberg».Per il Ministro della «guerra totale» era davvero troppo: non poteva accettare che la realtà avesse la meglio sulla propaganda.
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