Noli miscere sacra prophanis, non si mescola il sacro col profano. Nel commovente tentativo del Fatto quotidiano di salvare il soldato Piercamillo Davigo dall'onta di una condanna, l'ex direttore Antonio Padellaro l'altro giorno ha infranto l'ennesimo tabù antimafia, paragonando le tristi vicende giudiziarie dell'ex magistrato simbolo di Mani Pulite a quelle di Giovanni Falcone. Una bestemmia anche per i più accaniti fan di Davigo, se si pensa che a Falcone un Csm condizionato dalla sinistra sbarrò prima la strada della Procura di Palermo poi quella Antimafia. Anzi, fu proprio una toga rossa come Alessandro Pizzorusso che sull'Unità giudicò unfit il magistrato morto a Capaci, incapace di guidare una creatura figlia della sua intuizione perché «come principale collaboratore del ministro della Giustizia Claudio Martelli non dà più garanzie di indipendenza».
Tra loro c'è una differenza gigantesca: Falcone è stato vittima dell'odio politico della sinistra, Davigo - che della stessa cultura si è abbeverato in questi anni - si è beccato una condanna per violazione del segreto. Al Csm Falcone non fu votato perché controcorrente, Davigo non potè correre perché pensionato. Una bella differenza. E il fatto che oggi a Palazzo de' Marescialli in quota Pd ci sia il delfino di Pizzorusso - al secolo Roberto Romboli, sulla cui eleggibilità si è discusso non poco - ne è la più straziante conferma.
L'idea che Davigo fosse un magistrato scomodo è un cliché sbagliato. Nessuno ne ha ostacolato i disegni, nessuno ha tentato di minare il suo percorso, la sua carriera è rimasta immacolata fino al pasticciaccio Eni-Amara-Storari. Le sue affermazioni («Non esistono innocenti, ma colpevoli che l'hanno fatta franca», «i politici non hanno smesso di rubare ma hanno smesso di vergognarsi», «Non vanno aspettate le sentenze») sono antitetiche ai dogmi di Falcone, che ha sempre criticato il khomeinismo, l'anticamera del sospetto come religione giudiziaria, il teorizzare matrici politiche e disegni scomodi come alibi per dimostrare l'infondatezza delle proprie tesi. Falcone non avrebbe mai ricevuto brevi manu dossier su altri colleghi come fece Davigo, mascariando il povero Sebastiano Ardita con cui fino a qualche mese prima aveva diviso il pane.
Quando Sergio Mattarella dice «la toga non è un abito di scena, va indossata per manifestare appieno la garanzia di imparzialità» parlava alla stampa perché Davigo e i pm protagonisti più sui giornali che in tribunale intendessero. Pensare a un Davigo bersagliato da vivo in un talk show, come avvenne per Falcone, è puro esercizio di fantasia, vista la pletora di cortigiani che ancora oggi ne magnifica le gesta nonostante tutto. «Le toghe celebrano i caduti ma non sempre fanno autocritica», disse Davigo. Ma Falcone non avrebbe mai inscenato una «obiezione di coscienza» a favore di telecamere come fece il pool di fronte a una legge del Parlamento nel 1994, lamentando per contro «un'aggressione mediatica senza precedenti», come se sfidare il potere legislativo fosse una forma di «resistenza».
L'azzardo su Davigo, salvato sacrificando l'icona Falcone, è segno dei tempi. D'altronde, i guai del Pd calabrese a braccetto coi boss (Nicola Gratteri dixit) interessano poco i giornalisti ciclostile delle Procure, accucciati e scodinzolanti di fronte alle carte che svolazzano dalle Procure, sia che riguardino fantomatiche trattative, sia foto fantasma che ritrarrebbero Silvio Berlusconi con i fratelli Graviano, giallo su cui è stato interrogato l'altro giorno a Firenze l'editore del Corriere Urbano Cairo.
Inseguire i fantasmi evocati dal sedicente pentito Salvatore Baiardo anziché cercare la verità dentro la magistratura è il peggior segnale da dare alla mafia, a un pugno di giorni dall'anniversario della morte di Paolo Borsellino in via D'Amelio, il cui destino grida vendetta. Segno che la vera Antimafia è morta in quella torrida estate del 1992.
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