Nessuno sarà più lo stesso dopo i sei mesi dal 7 di ottobre. Questa guerra ha reso chiunque vi abbia partecipato, da protagonista o da testimone, molto più stupito del prezzo della vita, molto più deciso a non farsela strappare via, molto più triste che si possa tanto odiare e compiere atrocità, molto più determinato a combatterle. Guardo, qui sul mio tavolo, un cuore di plastilina raccolto a Be'eri letteralmente in un lago di sangue in un asilo nido: l'odore era terribile, e torna ad ogni momento nella mia memoria, insieme agli scenari che ogni giorno si rivelano, stupri, torture, schiavitù dei 134 rapiti ancora nelle mani di hamas. Israele combatte la guerra più lunga e difficile, generata dal peggiore attacco subito dagli Ebrei dopo la Shoah. Ci ha costretto a capire che l'odio può essere molto più forte della storia di tentativi di condivisione, di scontri e incontri, di sgomberi dolorosi come quello del 2005. Le forze in gioco sono poderose: Israele con l'Ucraina, di una rivoluzione mondiale in cui l'asse del male ha molti amici, e pensa di vincere. Così la Russia; così l'Iran che ha messo l'assedio a Israele tramite Hamas al centro della sua aggressione messianica. Ha tessuto la sua tela velenosa per l'attacco del 7 ottobre, per poi assediarla dal punto di vista morale, con l'antisemitismo. Con Hamas ha associato al negazionismo della Shoah, fieramente praticato, la delegittimazione di Israele. È il gioco assurdo per cui mentre neghi la Shoah e il nazismo, accusi Israele di essere nazista: con complici come Nasrallah, Erdogan, Assad, i gruppi iracheni e yemeniti, ha criminalizzato Israele mentre doveva combattere per salvarsi; l'antisemitismo occidentale, perbenista, politically correct terzomondista, vile, è cresciuto con la guerra, un fenomeno già sperimentato, in tono minore, al tempo della Seconda Intifada. E l'esaltazione che crea in Hamas e i suoi alleati il consenso degli antisemiti a Londra, a Parigi, a Roma, promette che la guerra non avrà un termine prossimo, e che potrebbe anche allargarsi. Eppure oltre la cortina di bugie e di delegittimazione, c'è un modo di capire questi mesi di guerra molto realistico e interessante per chiunque voglia immaginare come potrebbe essere l'intero mondo occidentale se costretto a combattere. È un esperimento drammatico, tragico e incoraggiante al contempo: guardare con intensità, con attenzione, i soldati senza paura che dal 7 di ottobre, perdendo gli amici più cari, hanno combattuto uniti. Israele si trova addosso il peso di combattere una guerra giusta in un momento storico in cui la parola guerra è per il mondo democratico una bestemmia. La tragedia ha aggredito sei mesi fa una società iperdemocratica, postmoderna, che dal 1948 ha immaginato che con le concessioni e il liberalismo avrebbe guadagnato il paradiso della pace. Si è risvegliata a mala pena da un sogno che le è costato caro, rischiando la vita, il presente, il futuro.
Dall'inizio, a mani nude, una volta confusamente resosi conto che il mondo del bene andava a fuoco con i suoi bambini nei kibbutz, ecco che guidatori d'autobus, maestri di scuola, operai, camerieri e cuochi, medici, scienziati, startupper, ingegneri, giovani padri di famiglie numerose, impiegate di banca, arabi pieni di buon senso, sono corsi a mettere in gioco la loro vita e quindi quella delle loro famiglie, e poi, come soldati delle riserve sono rimasti sul campo. Si sono addentrati nei vicoli minati, nelle gallerie piene di armi e terroristi, dormendo con le scarpe addosso mentre sui reticolati si affollavano volontari con i sandwich, gli schnitzel, la pita con humus, la cocacola. Il tormento è stato triplo: combattere una guerra di sopravvivenza con la responsabilità consapevole di migliaia di sfollati. Hanno sopportato contro la loro stessa educazione morale la sofferenza del nemico; e hanno cercato di salvare le masse di Gaza dagli attacchi con le vie di fuga e grandi derrate di cibo, acqua, benzina. Ogni giorno hanno vissuto l'impossibilità di parlare con la famiglia, coi bambini, con una moglie che stava partorendo; di coprirsi le spalle da chi spunta e ti spara all'improvviso dalle gallerie mentre vai avanti e il tuo migliore amico viene colpito e sanguina; hanno sognato un materasso dove dormire almeno una notte; hanno visto i camion a migliaia portare i rifornimenti umanitari e all'improvviso Hamas li saccheggiava senza che potessero fare niente; hanno raccolto i corpi dei compagni dopo che un'esplosione li ha fatti a pezzi; si sono riuniti, con uno psicologo che cerca almeno di iniziare a prendersi cura del postrauma, un soldato racconta che un uomo con un pacco in mano, grazie a Dio all'ultimo minuto ha mostrato che non era una bomba, ma un bambino; un altro che una bambina di cinque anni aveva un panierino pieno di bombe a mano; un terzo che si era trovato nel sangue dei tre ostaggi che per sbaglio l'esercito ha ucciso. Sono gli stessi ragazzi che a Be eri e a Kfar Aza hanno raccolto i pezzi di corpo cui altri santi hanno cercato di dare sepoltura studiando ogni indizio di identità in quei resti bruciati di creature piccole e grandi; il giovane che mi dice «mio nonno era ad Auschwitz, mio padre ha combattuto la guerra del Kippur nel 73, adesso never again sono io» deve ricominciare una vita, ma ancora sta combattendo, dopo sei mesi. Un affetto che gli illumina gli occhi lo lega ai suoi compagni, chi religioso, chi laico, chi di sinistra, chi di destra. Prima di sei mesi fa non si parlavano, la società era spaccata. Perché Israele è una democrazia estremista, illusa che il progressismo sia la sostituzione dell'ebraismo, che ha riportato Arafat da Tunisi scommettendo su «due stati per due popoli» per poi ritrovarsi in piena Intifada. Sei mesi di concordia sono stati il regalo della guerra.
Ma adesso la democrazia chiede il suo tributo, la pressione internazionale, divorata a sua volta da interessi locali come le elezioni americane, non capisce una guerra giusta, e ignora colpevolmente ciò che nessuno può sopportare: la minaccia di un mondo che urla all'Occidente impaurito la sua minaccia di morte, e la difficoltà nel difendersi. Nessuno vuole sentire quell'urlo, Israele, solo, vi è costretto da sei mesi a questa parte.
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