I missili di Hamas partiti da Gaza e piovuti ieri su Tel Aviv e dintorni riaprono l'interrogativo che contrappone i portavoce dell'esercito israeliano e molti analisti internazionali. I primi sostengono di aver eliminato almeno 13mila militanti fondamentalisti. I secondi sottolineano l'incoerenza di questa affermazione. Secondo Israele il gruppo fondamentalista contava inizialmente su 30mila combattenti. Ma le contabilità di guerra raccontano che per ogni caduto vi sono sempre almeno due o tre feriti gravi destinati a restare fuori combattimento per molti mesi. Un calcolo reso ancor più concreto dalle condizioni sanitarie di Gaza dove curare i feriti è diventato quasi impossibile. Dunque in base a queste considerazioni Hamas dovrebbe esser totalmente fuori gioco. Invece a quasi otto mesi dall'inizio delle operazioni Israele fa i conti con continue infiltrazioni di Hamas in zone dove la presenza nemica era stata ufficialmente cancellata molte settimane prima. Ai primi di maggio, Tsahal ha dovuto convogliare alcune unità nel quartiere di Al Zaytoun dove Hamas era stato dato per sconfitto già a marzo.Ed episodi del genere vanno ripetendosi a Jabalya, Khan Younis e molti altri quartieri considerati ormai «ripuliti». Queste ripetute infiltrazioni fanno pensare che gli asseriti successi dell'esercito israeliano si basino su almeno due valutazioni errate.
La prima riguarda il modo di stimare le perdite di Hamas. I suoi 13mila presunti caduti non vengono calcolati in base ad un effettivo conteggio dei cadaveri, quasi sempre abbandonati tra le rovine o nei tunnel distrutti, ma semplicemente dando per buona l'ipotesi che tutti gli uomini tra i 18 e e i 40 individuati nelle liste dei 32mila morti di Gaza combattessero per Hamas. Alle errate stime contribuisce la mancanza di una dettagliata geografia dei tunnel. Oggi molte fonti dell'esercito israeliano ammettono l'esistenza di una rete sotterranea molto più vasta di quanto calcolato. Proprio la presenza di sotterranei sconosciuti avrebbe garantito la sopravvivenza di molti battaglioni di Hamas. E permetterebbe alla sua ala militare il continuo spostamento di uomini e comandanti nei diversi settori della Striscia. L'incoerenza tra la realtà sul terreno e le stime dei generali israeliani preoccupa soprattutto un alleato americano convinto che gli errori del governo Netanyahu e dai suoi generali rappresentino la miglior garanzia di sopravvivenza di Hamas. O di chi ne raccoglierà l'eredita. Fra i critici vi è il generale americano Joseph Votel già responsabile del Comando Centrale statunitense durante la lotta allo Stato Islamico in Iraq e Siria.
Votel teme che l'alto numero di perdite tra i civili contribuisca a radicalizzare i più giovani. E a moltiplicare il pessimismo di Votel s'aggiunge la riluttanza di Israele a garantire l'afflusso di aiuti umanitari nella Striscia. «Israele - sostiene il generale americano - non sembra contribuire alla propria causa». Un'opinione condivisa dal generale Frank McKenzie, responsabile pure lui del Comando Centrale Usa dal 2019 al 2022.
Secondo McKenzie il principale errore israeliano è il mancato dispiegamento di forze sufficienti a garantire il capillare controllo dei centri abitati dove «in base ad una classica strategia di guerriglia» Hamas tornerà a insediarsi «non appena la popolazione sarà rientrata».
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