Un successo innegabile e un caveat da non trascurare. La giornata di ieri consegna al ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, due segnali apparentemente equivoci, ma che testimoniano come la strada intrapresa in materia di politica economica stia già portando i primi frutti, sebbene la guardia vada tenuta ancora alta. Lo spread tra i Btp decennali e gli omologhi Bund tedeschi è sceso ieri al minimo degli ultimi dieci anni a quota 108,3, un valore che non si registrava dal periodo a cavallo tra fine 2015 e inizio 2016. «Avevo puntato, all'inizio dell'anno, su uno spread a 110, l'unico 110 che mi piace! Continuiamo così, è la strada giusta», ha commentato il ministro dell'Economia Giorgetti.
Allo stesso tempo, le prospettive di crescita del Pil appaiono meno rosee. Dall'Istat, infatti, è giunto un monito non inaspettato. L'istituto di statistica ha allineato le proprie previsioni di crescita del Pil a quelle dell'Ocse, tagliando il 2024 a +0,5% (dal precedente +1% di giugno) e il 2025 al +0,8% (da +1,1%). Nel 2025, la crescita sarà maggiormente sostenuta dalla domanda interna, riflettendo gli effetti delle politiche volte a rafforzare consumi e investimenti. Una scelta che produrrà benefici anche per il rapporto deficit/Pil «che potrebbe risultare inferiore a quanto programmato nel Piano strutturale di Bilancio (3,3% nel 2025 e 2,8% nel 2026; ndr)», si legge nel report. E la causa principale è da ricercarsi nel collasso dell'economia tedesca.
La prudenza e il rigore nella gestione dei conti pubblici di Giorgetti, quindi, non sono sufficienti a chiudere la partita. Non a caso dal ministero dell'Economia ci fa sapere che i dati Istat «non sono una sorpresa» perché «scontiamo i problemi molto seri dell'industria che continua a registrare, da un anno e mezzo, una crescita negativa». Tuttavia, «il settore industriale è in crisi non solo in Italia ma anche in Europa» e, anche se «il governo sta facendo i suoi compiti a casa per far crescere il settore», è necessaria, in tempi stretti, «una strategia complessiva a livello europeo per il rilancio industriale».
La crescita degli ultimi anni è stata trainata da due fattori. Il primo è stato la droga del Superbonus che a fronte di circa 200 miliardi di spesa pubblica (tutta scontata con l'esplosione del debito) e il secondo è l'ottimo andamento del turismo. Resta la grande malata che è l'industria (che rappresenta ora il 18,1% del Pil contro il 19,9% pre-Covid). Le crisi di Stellantis e dell'ex Ilva aggravano la situazione.
Ma il problema si chiama Germania che anche quest'anno si aspetta una recessione (-0,2% la stima del Pil) nel bel mezzo di una crisi di governo che porterà il Paese in esercizio provvisorio. Nel 2023 l'export italiano verso la Germania è sceso del 3,7% a 74,6 miliardi. È il nostro partner principale e sbocco naturale per i semilavorati manifatturieri (oltreché per l'agroalimentare).
Se Berlino frena gli investimenti, non aiuta le sue imprese, si rinchiude in un Green Deal masochistico e persegue la linea di un'austerity che impedisce di usare i propri spazi di bilancio (il Paese non ha deficit e il debito/Pil è al 63%), l'Italia può fare i salti mortali ma camminerà sempre con una ruota a terra.
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