La vita è un lunga marcia piena di alti e bassi e di colpi di scena. Chi può dare lezioni in materia, e già lo sta facendo, è Alex Schwazer, l'ex campione dell'atletica passato dal trionfo alla depressione, dal doping alla rinascita e ancora giù all'inferno, attore protagonista di una vicenda con troppe ombre che ha chiuso la sua carriera. Sembrava ieri che il biondo altoatesino esultava per la vittoria di Pechino 2008 nella 50 km e poi versava lacrime per la positività all'Epo alla vigilia dei Giochi di Londra 2012. Dopodiché ne è arrivata un'altra prima di Rio 2016, ma Alex ha lottato e nel 2021 ha ottenuto, per quanto riguarda il procedimento penale, l'archiviazione per «non aver commesso il fatto». Tornato in pista a luglio per una gara di addio ad Arco di Trento dopo la fine della squalifica di 8 anni, a Santo Stefano compirà 40 anni. E adesso marcia verso un nuovo futuro: il calcio.
Alex, si sta imbarcando in una nuova avventura?
«Sì. Voglio aiutare i calciatori a migliorare la propria condizione atletica. Dopo 20 anni da atleta so di poter aiutare i singoli a dare qualcosa in più dal punto di vista dell'aerobica».
È stato a Coverciano, dove ha parlato di atleti e problemi psicologici.
«Ho affrontato la depressione e ho portato la mia testimonianza, perché non ho mai avuto problemi nel mostrare le mie debolezze. Sono un libro aperto».
Nello sport ci sono casi in aumento di chi soffre di problemi di salute mentale.
«La depressione è una patologia. Io a 23 anni ho vinto le Olimpiadi, poi ho iniziato a chiedere sempre di più al mio corpo ed è diventato difficile a livello psicologico».
Non ha retto.
«Nel nostro sport non esistono pause. Invece siamo umani, non robot. Ci sono atleti che non possono reggere a certi livelli e rischiano di dover smettere dopo 7-8 anni».
Nella gara d'addio cosa c'era in lei dal punto di vista emotivo?
«Tutto. Tornare a indossare il pettorale dopo 8 anni ha significato tanto per me e anche per la mia famiglia e le persone che mi sono state vicino».
Fra cui sua moglie Kathrin e i figli, Ida e Noah.
«Volevo che almeno una volta i miei figli mi vedessero marciare. Il piccolo ha 4 anni e non ha capito, però la grande ne ha 7 e ha capito benissimo. Quando non mi hanno ridotto la squalifica negandomi la possibilità di qualificarmi per Parigi mi sono detto: voglio ancora una gara. Sono stato di parola. Non l'ho finita per via della sciatica».
Ce l'avrebbe fatta a qualificarsi per la 20 km di Parigi?
«Io a maggio sono stato nella miglior forma di tutta la mia carriera».
Dopo la prima squalifica come si è risollevato?
«Mi sono preso una pausa per rientrare nella mia vita. Per molti mesi non ho pensato allo sport. Dovevo capire che persona fossi. Per me è stata in fondo una grande fortuna quell'episodio».
Non ha un rammarico?
«No, né rabbia né rammarico. Ho dato tutto, a volte anche troppo. Quando uno si deve fermare, si deve fermare. Ma rimpianti non ne ho. Ho vinto le Olimpiadi. Forse non ho capito le potenzialità che avevo, ero troppo modesto per comprenderle. Qualcuno dirà che avrei potuto vincere 4 Olimpiadi. Giusto. Credo anch'io. Ma sono già contento così».
Come ha vissuto i giorni di Rio, quando avrebbe potuto gareggiare all'Olimpiade senza la seconda positività?
«Mi auguro che a nessun atleta venga mai riservato il trattamento che ho dovuto subire. I giorni di Rio sono stati assurdi. Mi hanno fatto male. Ero tornato a marciare, ero sereno. Ho sognato di poter pensare solo alla gara, di fare quella gara. Ma anziché gareggiare, mi sono dovuto difendere da una cosa che non ho fatto».
Ha "pagato" il rapporto con l'allenatore Donati.
«Da quel punto di vista, farmi seguire da Sandro non è stato utile. Anche prima era già successa una cosa simile a una sua atleta, ad Anna Maria Di Terlizzi. Di sicuro l'accanimento che mi riguarda indirettamente c'è stato».
Il mondo si è diviso per Alex. Chi era dalla sua parte e chi no.
«Il procedimento durato 5 anni ha portato a un verdetto. Io ho dato tutto per la mia innocenza. Quando sono tornato da Rio era quello il mio obiettivo. È stata una fatica per me, per Sandro, per l'avvocato Gerhard Brandstaetter, per la mia agente Giulia Mancini».
A proposito di vicende doping, che opinione si è fatto del caso Sinner?
«Nel sistema di giustizia sportiva il fatto che sei innocente non conta niente, purtroppo. E poi ci sono stati atleti, come il cestista Moraschini sospeso un anno, positivi alla stessa sostanza (il Clostebol, ndr) e allo stesso modo, che poi sono morti a livello sportivo in silenzio. All'epoca bisognava dire qualcosa sul sistema, non adesso che è esploso il caso Sinner, che è l'ultimo ad aver bisogno di essere difeso. Può permetterselo da solo. Ma c'è chi non aveva i mezzi. Questo deve far riflettere sul sistema».
L'ultima è il controllo antidoping a un tennista nel mezzo di una partita. Si è persa la credibilità?
«Mi chiedo: nessuno dice niente? Gli unici che hanno le p sono gli americani che criticano la Wada e dicono le cose che non vanno. Ma tutti gli altri sono sempre muti. Al massimo alzano la voce per fare la foto con il campione olimpico accanto».
Guarda ancora le gare?
«Mi dispiace vedere che nella marcia cambiano di continuo i format rendendola ridicola. La staffetta mista non può esistere. Chiedete a Pamich e vi risponderà la stessa cosa».
Con Tamberi, che non è stato tenero nei suoi confronti, ha mai parlato?
«Mai sentito e mai conosciuto. Zero. Se mi ha ferito? No. Se uno dice le cose di impulso perché gli viene da dire qualcosa anche se i dettagli non li conosce allora non ti fa arrabbiare. In generale si critica senza sapere. Perché tutti devono dare giudizi. Invece non bisogna giudicare senza sapere».
Cosa racconterà ai suoi figli per renderli orgogliosi del loro padre?
«Sarò sintetico, dirò: ora con la macchina abbiamo fatto 60.000 chilometri. Io a piedi ho fatto il doppio».
Spingerà i suoi figli verso la
marcia?«No, facciano quello che vogliono. A Ida, la grande, non interessa tanto lo sport. Spero che utilizzino il telefono il più tardi possibile, che facciano attività all'aperto senza stare nel mondo dei social».
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