Prima di tutto c'è il gatto nero, amatissimo, di nome «Nigger Man», che gli tirò addosso accuse postume di razzismo. Poi c'è il racconto I gatti di Ulthar, del 1920, che narra di una cittadina in cui viene proclamata una legge che vieta l'uccisione dei gatti dopo che una coppia di vecchi ha cominciato a rapire e seviziare i randagi (incipit sontuoso: «La Sfinge è cugina del gatto. Parla la sua stessa lingua ma lui è più antico e ricorda cose che essa ha dimenticato»). E poi c'è il breve saggio, Cats and Dogs: un monumento perenne alla bellezza e alla sacralità del Gatto che H.P. Lovecraft (1890-1937) scrisse nel 1926 per una serata al «Blue Pencil Club» di Brooklyn, New York, e fu pubblicato su una rivista minore, Leaves, nell'agosto del 1937, pochi mesi dopo la sua morte. In volume apparve negli Stati Uniti nel 1949 e ora, per la prima volta, arriva in versione integrale in Italia: Howard Phillips Lovecraft, Gatti e cani (Henry Beyle, pagg. 90, euro 30; a cura di Davide Tortorella).
Amato dai gattofili, mal sopportato dai cinofili, Gatti e cani è una sinuosa elegia in lode di un animale senza eguali, il quale - come diceva Théophile Gautier potrà essere tuo amico, ma mai tuo schiavo. Del resto il luogo comune domestico vuole che il cane veda l'uomo come Dio, il gatto si senta il Dio dell'uomo. E c'è del vero.
Schivo, misantropo, solitario di Providence e maestro dell'orrore cosmico, Lovecraft distingue il contegno di gatti e cani (indipendenti i primi, servili i secondi: «Il cane è un burino, il gatto è un gentiluomo») e la psicologia dei loro padroni: aristocratici, poeti e filosofi gli amanti dei gatti; prosaici, borghesi privi di immaginazione e bifolchi i padroni dei cani. «Il cane è palesemente affine alle anime volgari che dall'universo si aspettano innanzitutto un amore immotivato, compagnia vana, piaggeria, sollecitudine e sottomissione, il gatto invece regna tra gli spiriti contemplativi e immaginifici che all'universo non chiedono altro che la visione spassionata dell'eterea struggente bellezza racchiusa nel simbolo vivente dell'ordine e dell'autarchia della Natura: inespressivo, implacabile, calmo, posato e impersonale». Da cui la frase-cardine del saggio: «Il cane dà, ma il gatto è».
Poi vanno assolutamente lette le righe con cui Lovecraft descrive le differenti reazioni del Signor Micio e del cane servile quando tiri loro un bastoncino... (il saggio sarà spulciato dai gattofili per trovare frasi da appiccicare sotto le foto dei loro post su Instagram...)
Il gatto simbolo di Bellezza e superiorità, il gatto che non ha padroni (siamo noi i suoi anfitrioni), il gatto con la sua innata dignità «che gli vieta di accettare un ordine delle cose diverso dal proprio», il gatto e il falso mito di animale traditore, il gatto «che percorre la sua orbita misteriosa con il moto calmo e regolare di un pianeta nell'infinito», fino all'eleganza del gatto versus la goffaggine canina... Insomma, non c'è dubbio che il gatto - è l'idea di Lovecraft, e di molti - «con le sue vibrisse e le sue fusa sia un organismo biologicamente superiore». Arcano, quasi umano...
Nota a piè di articolo. Si potrebbe anche ipotizzare, e non lo faremo, una certa diffidenza ideologica che ha gravato negli anni sul testo e sullo stesso Lovecraft, ossia la volontà di leggere le pagine di Gatti e cani (siamo, come detto, negli anni Venti) in chiave politica: il cane, simbolo della fedeltà e dello spirito democratico, come animale di sinistra; il gatto, simbolo della libertà e dell'uomo-forte, come animale di destra... Ovviamente stupidate.
E per quanto riguarda chi scrive, saremo sempre dalla parte di Lovecraft e di quella «figura di grazia imperitura cui non sempre i miopi mortali hanno tributato il giusto valore:
l'altero, l'invitto, il misterioso, il sontuoso, il babilonese, l'impersonale, l'eterno pupillo dell'arte e dell'eccellenza, modello della bellezza perfetta e fratello della poesia; pacato, grave, competente, patrizio». Il gatto.
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