I versi di Celan aprono porte affacciate su un altro mondo

L'autore si insinua fra gli spiragli del linguaggio. E crea icone e monili di indistruttibile bellezza

I versi di Celan aprono porte affacciate su un altro mondo

Questo libro parla di vita e di morte. È nel febbraio del 1970, infatti, che Paul Celan comunica a Moshe Kahn, all'epoca direttore del Goethe-Institut di Firenze, ventisettenne, di averlo scelto come suo traduttore per l'Italia. La vicenda - ricostruita con dote di documenti da Dario Borso in Celan in Italia, Prospero, 2020 - ha i sigilli del giallo. Era dal 1961 che Vittorio Sereni discuteva con Celan sull'idea di pubblicare una sua raccolta di poesie nello «Specchio» Mondadori. Il poeta aveva rifiutato diversi traduttori, da Ferruccio Masini a Maria Luisa Spaziani e Giuseppe Bevilacqua. Si affidava, per scandagliare il linguaggio, al proprio orecchio assoluto: Celan aveva volto in tedesco Emil Cioran e Paul Valéry, Shakespeare e Simenon; stava traducendo Ungaretti - una selezione di poesie sarebbe uscita per Insel nel 1968 -; particolarmente notevoli, per il dire affine, le versioni da Osip Mandel'tam (le cui Poesie tradotte da Paul Celan sono state pubblicate da Crocetti nel 2023, a cura di Dario Borso).

Reduce da un viaggio a Gerusalemme, l'ebreo rumeno Celan, tra i grandi poeti in lingua tedesca di ogni tempo, optò infine per le prove di traduzione inviategli da Kahn. A Parigi, abitava in un appartamento di recente acquisto, spoglio, in avenue Zola, al civico 6, adatto al suo stile, di terrea solitudine. Conservava pochissimi libri; spiccava un manuale di mineralogia. Il 26 marzo del 1970, a Friburgo, durante una lettura privata, il poeta incontra, ancora, Martin Heidegger: lo tratta con punte di astio; il filosofo sussurra, «Celan è ammalato - disperatamente». Intorno al 20 aprile, Celan si getta nella Senna, dal ponte Mirabeau. Il suo corpo viene ritrovato da un pescatore, dopo dieci giorni di flagello subacqueo.

Questo libro, dicevamo, parla della vita, della morte.

Nel 1976, infine, esce per Mondadori la prima edizione italiana delle Poesie di Celan; Moshe Kahn si fa affiancare nel lavoro da Marcella Bagnasco. La quarta di copertina, assai involuta, gioca in difesa: «Il lettore che accede a queste poesie con la pretesa dell'intelligibilità immediata, della corrispondenza assoluta tra segno e senso, non potrà nascondersi un moto di disagio. Piuttosto, di fronte a questi enigmi dovrà collocarsi in un'angolatura non dissimile da chi guardi un quadro astratto, dove frammenti o lembi di un mondo sconvolto vengono ricomposti da una fantasia ribelle a riprodurre o ad evocare i tratti dell'oggetto concreto». In verità, le poesie di Celan vanno guardate come icone: figure arcane, di serafica violenza, che ci fissano da ribaltata prospettiva. La rovina, se c'è, in quei lacerti di verbo, in quelle parole-braci, è in noi, i lettori. Celan, cioè, s'installa negli spiragli del linguaggio, nel sancta santorum dove la prece si confonde con l'incantesimo, nel punto supremo dove la ragione è errante e si nasconde - a nudo, a pugni - l'uomo, balbettio incarnato. La sua innocenza ha condannato Celan all'inferno della mente.

Ma torniamo a noi, cioè alla malia editoriale. Il libro curato da Moshe Kahn sparì quasi subito. Nel 1983 Mondadori affida a Giuseppe Bevilacqua la traduzione di Luce coatta; sempre a Bevilacqua spetta la cura del «Meridiano» che raccoglie tutte le Poesie di Celan, uscito nel 1998. Oggi l'editore L'Orma riprende, rivista - e con aggiunte - la versione delle Poesie celaniane di Moshe Kahn (coadiuvato, questa volta, da Vittorio Tamaro, pagg. 372, euro 30). L'evento non è estemporaneo né marginale: pare di leggere un altro Celan. Prendo una delle poesie capitali, Tübingen, Jänner. Questo è l'attacco della versione Kahn: «Occhi, alla cecità/ persuasi./ Il loro un/ enigma scaturisce/ puro , il loro/ ricordo di/ galleggianti torri hölderliniane, con in-/ torno un frullio di gabbiani». Questa è la versione Bevilacqua: «A cecità con-/ vinti occhi./ Il loro enigma/ è un'origine pura , il loro/ ricordo di/ torri Hölderlin riflesse, tra/ gabbiani sfreccianti». Una poesia-monile, da portare sempre con sé - già: le poesie salvano, fidatevi, incidetele sulla porta di casa, scacciano il maligno -, Einkanter, attacca così nella versione Kahn: «Roccia affilata: Rembrandt,/ a tu per tu con l'affinata luce,/ dalla stella colta l'idea/ come riccioli di barba, alla tempia». Questa è la versione Bevilacqua: «In-cantonante: Rembrandt, a tu per tu/ con la luce arrotante,/ deriflessa dalla stella/ come ricciolo di barba,/ sulla tempia». Anche i titoli delle raccolte a volte cambiano: Atemwende è «Svolta del respiro» per Bevilacqua e «Virata di respiro» per Kahn; Fadensonnen è «Filamenti di sole» per Bevilacqua mentre per Kahn è «Soli in filamenti». In generale, la versione approntata da Kahn, dopo stagionatura di decenni, suona meglio risolta, è più bella.

A noi, dopo la disfida dei traduttori, resta di Celan questa fitta manciata di versi abracadabra, che aprono i portali dell'altro mondo. «Siamo vicini, Signore,/ vicini e afferrabili», comincia Tenebrae, ribaltando l'antico inno di Hölderlin, Patmos, «Prossimo/ è il Dio e difficile è afferrarlo» (qui nella traduzione tonante di Enzo Mandruzzato). «All'abbeveratoio andavamo, Signore», prosegue Celan, in atmosfera tra liturgia e mattatoio: «Era sangue, era/ ciò che hai sparso, Signore.// Riluceva».

La raccolta in cui spicca, monolite, la poesia Tenebrae, s'intitola Sparchgitter, «Grata di linguaggio»: Celan la pubblica nel 1959. Dopo averla letta, Nelly Sachs, la poetessa tedesca di origine ebraica, futuro Nobel per la letteratura, ne è commossa: «Possa ogni Suo respiro continuare a essere benedetto... benedetto al punto da racchiudere in sé il volto spirituale del mondo». La Sachs aveva intuito il potere teurgico della poesia di Celan, la sua «opera al nero».

Cosa c'è di più commovente e di più tragico che votare la propria vita alla poesia, a quell'elitra di parole? Celan continua a vagare con il suo aspersorio di versi, pregando sui luoghi persi, sugli uomini spettrali. Non chiede che le cose risorgano perché, a guardar bene, siamo già risorti: siamo i prediletti.

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